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Il futuro? Ora che lo conosciamo riusciamo a vederlo bene: e se non tutto è come lo vorremmo, bisogna cominciare a cambiarlo
Isabella Pierantoni

Il futuro? Ora che lo conosciamo riusciamo a vederlo bene: e se non tutto è come lo vorremmo, bisogna cominciare a cambiarlo<br> Isabella Pierantoni

Il futuro? Ora che lo conosciamo riusciamo a vederlo bene: e se non tutto è come lo vorremmo, bisogna cominciare a cambiarlo
Isabella Pierantoni

La lettura dei dati, le analisi economiche e sociali, le statistiche, gli studi: anni di studio hanno diradato la nebbia e hanno reso chiaro ciò che una volta era considerato invisibile: il nostro domani. Non i dettagli ma i megatrend, linee di tendenza che ci dicono dove andremo fra dieci o cinquant’anni in Europa e nel mondo. Meno abitanti nel Nord del pianeta, molti di più nel Sud. Ricchi più ricchi, poveri in aumento, classe media in crisi. Nuovi modelli di lavoro, valori che si trasformano, passioni e desideri condivisi da ragazzi e anziani. E tanta tecnologia innovativa che è una grande opportunità, ma anche un rischio che va gestito. Però, rispetto agli astrologi che fingevano di vedere il futuro, ora la visione è abbastanza nitida da permetterci – se avremo la volontà di farlo – di immaginare come migliorarlo. E la sorpresa più affascinante è senz’altro una inedita alleanza tra le generazioni: in azienda e fuori, con caratteri differenti e stili opposti, però Boomers e Gen Z possono collaborare. E vedrete gli Alpha.

È vero che il futuro è un’ipotesi e già l’attualità ci riempie di dubbi e domande. Figuriamoci qualcosa che va oltre la settimana prossima… Eppure, sotto la spinta proprio delle crisi che ci stanno tallonando, dobbiamo – e in parte oggi possiamo – guardare avanti con maggiore consapevolezza e con strumenti migliori per osservare non soltanto le criticità ma anche le numerose opportunità che potrebbero sprigionarsi. I dati ci sono, possiamo elaborare gli strumenti. Manca solo la volontà di pensare come, poi alzarci e lavorare. Si può davvero cambiare: il futuro non è un destino, ed è quindi la sola cosa che possiamo trasformare.

Potrebbe sembrare un editoriale per Capodanno, o il pensiero di un poeta, di un visionario della speranza, la promessa di un profeta. Invece sono le parole (e una valanga di numeri e prospettive reali) di una scienziata del possibile. Isabella Pierantoni, sociologa che sceglie per sé la definizione di “futurista” al posto di quella un po’ astratta di futurologa, spiega al pubblico della Vecomp Academy quanto ci costa non occuparci di futuro. Ma in sala lo sanno già, perché la stagione 24|25 di Open è centrata sullo sforzo a guardare avanti, non indietro. Sera dopo sera, Francesco Masini smonta le certezze e spinge gli ascoltatori e i relatori a tracciare una via e accendere una luce per non restare fermi, imbalsamati.

Pierantoni, fondatrice di Generation Mover, studia e “trasporta” in azienda l’impatto della tecnologia e dei fenomeni sociali, mescola le generazioni e applica i fattori demografici ai modelli di business. Utilizza le ipotesi sociali, come fa in Academy con dovizia di dettagli, per dimostrare che a cercare bene i segnali forti e quelli deboli, le indicazioni su dove si sta andando invece di dove sarebbe meglio andare sono lì da osservare. Così comincia a coinvolgere il pubblico parlando delle equazioni del futuro, le tendenze e i fenomeni che possono modificare il contesto e cambiarlo rendendolo più appetibile. Parte di slancio e lascia “a riposo” per una buona parte della serata lo stesso conduttore. Le aziende sono già abituate a fare ipotesi su produzione, commercio e occupazione, quindi l’opportunità di sapere con anni di anticipo come si modificherà la società permette loro di gestire gli shock potenziali, gli imprevisti e i rischi d’impresa connessi al mercato. E così ampliare la visione e migliorare la capacità decisionale è un grande vantaggio, anche competitivo.

Sul piano dei processi decisionali aiuta a prendere decisioni informate e consapevoli che si basano su scenari plausibili, a identificare e anticipare gli effetti delle azioni di oggi.  Si possono generare approcci proattivi per affrontare le sfide e intercettare le opportunità. Ecco: sviluppare una mentalità critica ci aiuterà a identificare e affrontare le conseguenze ma anche i vantaggi di un futuro che si sta rapidamente formando. Prendiamo ad esempio i megatrend, potente forza di cambiamento che ha effetti concreti e globali in un arco di decenni. Queste tendenze in un arco di cinquant’anni impatteranno su più generazioni, sul lavoro, le famiglie e la società. Insomma, sulla sopravvivenza stessa del nostro sistema.

In Europa comporteranno, solo per citarne alcuni tra i più impattanti, nuove tecnologie in accelerazione, risorse più scarse, esigenze nuove per il lavoro, cambiamento climatico e degrado dell’ambiente, più gente che abita in città, diseguaglianze più estreme, meno giovani e più anziani, per continuare con il peso delle migrazioni, con le nuove sfide per la salute e i problemi di governabilità. Tendenze demografiche e sociali, comportamentali e professionali che si sommano e si integrano modellando il continente in cui abiteremo tra dieci anni, mentre il Nord del mondo invecchierà perdendo peso, davanti a un Sud che continua velocissimo a crescere. È un mix sociologico nel quale oggi si combinano ben sette generazioni che vanno dai neonati fino agli anziani da 80 a cent’anni – e oltre.

Concentriamoci sul calo demografico che è ormai diventato un’emergenze per l’economia europea, mettendo a rischio la nostra capacità di competere ed esistere come siamo oggi. L’ipotesi statistica è che entro il 2100 ci saranno 150 milioni di europei in meno, con meno giovani e più anziani sopra i 65 anni. Questo genererà un calo di risorse disponibili, legato anche alla riduzione del numero di immigrati. Avere più anziani è un bene, con un grosso MA: l’incremento della vita media dice che sono in forma e attivi. Gli anni pesano meno di quanto ci dice l’anagrafe. Hanno disponibilità economica, si danno nuovi obiettivi e la loro salute è un acceleratore della “silver economy” che cresce molto bene. Il 70% degli italiani vive in quella che veniva definita terza età, mentre oggi è un prolungamento della maturità. I nonni hanno intenzione di godersi i loro risparmi e saranno presto metà della popolazione. Ma questo cambiamento impatterà sui giovani e sulle loro prospettive.

Altrove la situazione è ben diversa. L’Africa aumenta a un ritmo che fatichiamo a valutare, e sta cercando una direzione verso cui orientare lo sviluppo. E in Italia? Il calo continuerà. Saremo 58,6 milioni già nel 2030, sotto i 55 milioni nel 2050 e poco più di 46 nel 2080: un calo complessivo del 24%. Percentuali variabili per le regioni: Veneto -1%, la Lombardia in pareggio, il Trentino Alto Adige vola a +3%, il Friuli Venezia Giulia a -2% e l’Emilia Romagna recupera un 1%. Questo al nord, ma nel sud ci sono crolli dal 5 all’8%. E restiamo ancora sull’Italia. L’anno scorso l’età media era 46 anni e sette mesi: 48 le donne e 45 e tre mesi scarsi per gli uomini. Ma sotto i 5 anni c’è un solo bambino contro sei over 65. Lavoro sì, ce n’è, soprattutto tra gli over 55, mentre cala tra i 40 e i 55. Nel complesso mancheranno 3,5 milioni di lavoratori e 21 milioni di italiani andranno in pensione. E con sempre meno studenti si chiuderanno tante scuole. Dal 2031 le università perderanno una matricola su 10. Effetto trasversale? La perdita di competenze giovanili: meno attività e invenzioni, meno sviluppo. Se si chiede ai giovani dove vorrebbero vivere da grandi, molti rinunciano all’Italia: almeno un terzo dei maschi, addirittura il 48% delle femmine ha le valigie pronte.

Cosa fanno altri Paesi per arginare questo drammatico calo di popolazione? La Germania (che considera bambini e giovani come risorse sociali) offre istruzione di qualità, aiuti e servizi per le famiglie, permessi studio, ricerca di migranti qualificati da integrare, creando famiglie e non comprando braccia). L’Ungheria, come l’Italia, è all’opposto: incentivi alle donne, case a famiglie numerose, bonus bebè e per le mamme lavoratrici. In Finlandia reclutano studenti stranieri con voti alti da Asia, Africa e America Latina. In Giappone dopo secoli hanno aperto agli immigrati, creano lavoro su misura per gli over 60 e poi per favorire la nascita di nuove famiglie organizzano pure il dating per single. La Spagna ha migliorato il collocamento, ridotto la percentuale di lavori precari o a tempo, aiuta le aziende ad assumere e grazie alla lingua richiama studenti dal Sudamerica. Altrove si sperimentando forme di sinergia per far lavorare insieme giovani e anziani.

Quindi come sarà il futuro è abbastanza chiaro: è il momento di iniziare a usare i dati per cambiare le cose che in prospettiva non ci piacciono. Ad esempio va rinnovato il modello di lavoro: telelavoro, non smart working perché in Italia non lo è ancora – ed è perfino poco apprezzato. Durante la pandemia è nato il south working: chi lasciava le grandi città per lavorare e vivere nei piccoli centri, spesso nei paesi di origine. Un buon stile di vita che mantiene l’efficienza grazie alla rete digitale: oggi sono 190 mila le persone che lavorano dalla regione natale. Saltando il fosso c’è la Yolo economy: siccome si vive una volta sola, sempre più giovani rifiutano le “manette” del lavoro tradizionale e in parte con le loro scelte di carriera, aiutano anche a modificarle. O non fanno carriera per vivere meglio.

E il grande rifiuto? Due milioni di dimissioni volontarie: me ne vado a fare altro, o anche niente per un po’, riprendo a studiare, viaggio, mi invento lavori che non esistevano e mi abituo a ripensarmi se voglio rigenerarmi. La cosa interessante? Che i giovani condividono l’approccio con i colleghi più maturi, che vanno via perché “a un certo punto anche basta”. La Gen Z ha fatto un passo ancora oltre: li chiamano job hoppers, quelli che saltano da un impiego all’altro senza fermarsi. Finito il lavoro che dura per tutta la vita: se un posto è tossico non accetti più di farti spremere in cambio del nulla. Un po’ studiano (“è meglio disoccupato che infelice”), poi lavorano, poi tornano a studiare, poi cambiano lavoro, poi cambiano nazione. Si studia sempre, non solo per il concetto di life long learning ma anche per mantenere giovane la testa, il che spiega il boom delle università per anziani. Salgono le quotazioni dell’irrequietudine, una forza molto potente che rimescola modelli storici.

Con le generazioni cambiano i linguaggi e l’approccio alla realtà, anche lavorativa. Chi ha più di 80 anni fatica a seguire gli stimoli sociali e professionali pensati per ragazzi di 25. Ed è naturale, perché le stesse tecnologie che usiamo modificano comportamenti, lavoro e desideri. Alcune cose restano quasi inalterate, altre cambiano per età. I sessantenni sono cresciuti tra ottimismo e cambiamento e pensavano di potercela fare da soli, mentre quelli cauti, che cercano sicurezza, competenze e realismo sono i giovani. Che danno valore al tempo: vogliono lavorare meglio, non per forza meno. E hanno aspettative alte, il che li avvicina anche a gruppi generazionali diversi, nelle aziende che hanno un approccio open alle sfide del mercato. Ci sono e ci saranno sempre più modi diversi di apprendere, leggere il mondo, capire cosa succederà e come affrontarlo per il bene proprio e del pianeta.

Un’occhiata al futuro possiamo darla già oggi con i ragazzi della Gen Alfa che hanno meno di 13 anni e sono ancora a scuola. Crescono in fretta tra AI e chatbot, sono più avanti dei fratelli maggiori. Si diplomeranno dal 2030 in poi, e quando saranno pronti saranno il 6% della forza lavoro globale. Seduti lì alla scrivania accanto alla nostra avranno competenze meno tradizionali ma in grado di anticipare il cambiamento e metterlo a frutto, guardando negli occhi i megatrend. Bene: le generazioni si amalgamano, si mescolano e si rinnovano insieme. I giovani hanno passioni, e anche i più maturi vogliono fare ciò che una volta era impossibile: essere parte del cambiamento. Ma è facile tener insieme generazioni diverse in azienda? No, ma è una sfida: vedi più lati del mercato, porti i ragazzi nei CdA, li metti a confronto, sperimenti. Poi c’è un pericolo: la Gen Z sembra non sapersi accontentare. E fa benone! Fa domande, chiede dettagli, pretende risposte senza cortine fumogene. È uno stimolo alla trasparenza e alla tempestività che farà del bene alle aziende più arretrate.

Ma non sarà solo rose e viole. Il futuro riserva anche dei rischi sistemici. Peggioreranno le diseguaglianze economiche e sociali: i ricchi saranno più ricchi, ci saranno più poveri e la classe media ne uscirà impoverita. Una delle crisi di cui tenere conto. Eppure con questo mix di competenze, visioni differenti o addirittura contrastanti i giovani fanno crescere dei Paesi che sembravano incagliati. L’età non è l’unica variabile. E in ogni caso un elemento comune fra le generazioni e su cui bisogna investire è l’aspirazione a una vita migliore e a una crescita socio-economica sostenibile. Strano che questo si fatichi ancora a parlare.