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Cecilia Sala
Informazione, guerre e crisi globali. Contro il deep fake lo sguardo onesto di una reporter che sa affrontare la paura

Cecilia Sala <br>Informazione, guerre e crisi globali. Contro il deep fake lo sguardo onesto di una reporter che sa affrontare la paura

Cecilia Sala
Informazione, guerre e crisi globali. Contro il deep fake lo sguardo onesto di una reporter che sa affrontare la paura

Dal Venezuela alla Palestina. Passando per l’Afghanistan, l’Ucraina, l’Iran: la passione liceale per il giornalismo romantico dei grandi inviati s’è trasformata in un impegno professionale. Oggi scrive per Il Foglio. Nel podcast Stories, più di 530 puntate, racconta il male del mondo. E le speranze: quei giovani che si oppongono ai regimi più brutali in nome della libertà, di un futuro finalmente in pace. Cosa mettere nello zaino, sfuggire all’accerchiamento, oltrepassare le frontiere con visti di fortuna, usare un asciugamano come bandiera bianca. È la rischiosa scommessa per riportare a casa voci, dolore e rabbia, ingiustizie e solidarietà. In una parola: notizie. Tutte vere? No, come abbiamo imparato: ed è proprio l’occhio della cronista che sa fare la differenza, che sa stare con i più deboli ma non si fa annebbiare dalle narrazioni dei più forti. E quella notte nel Donetsk, mentre i russi lanciavano i fuochi artificiali al fosforo bianco…

Testo di Stefano Tenedini

“Ero in Donetsk con i militari ucraini, e i russi bombardavano le linee con il fosforo bianco, un esplosivo che è il re degli incubi. Tu vedi un fuoco d’artificio e sembra quasi bello, ma poi piomba a terra e divora tutto quello che incontra, bruciando a una velocità spaventosa. Se sei con i militari devi stare con loro per tutto il tempo che dura la loro missione… che Dio te la mandi buona. Se non sei una persona ansiosa sfrutti l’adrenalina. Se governi e moduli la paura, allora riesci a metterti il cuore in pace. Se non puoi farci niente… beh, continui a fare quello che avresti fatto se non fosse esploso quel fuoco d’artificio bianco in cielo”.

Volevamo parlare di informazione, del suo ruolo, se funziona bene, di come potrebbe essere il più possibile onesta, veritiera e utile alla società. Ma l’ultimo incontro della stagione 2023-24 di Open - Il Festival della Cultura d’Impresa ha preso un’altra strada grazie a Cecilia Sala, relatrice-testimone come può esserlo solo una giovane giornalista abituata a confrontarsi con ciò che accade nel mondo, cercando di illuminare vicende internazionali di cui, essendo in prima pagina e in prima serata, i lettori credono di sapere tutto. L’informazione di cui c’è bisogno è basata sui fatti, non sulle opinioni. Si nutre di incontri con le persone, non con i governi. Propone un racconto lineare dei fatti, ma di sicuro non la loro ridefinizione.

Così la puntata ha cambiato obiettivo per chiedere a Cecilia Sala di affrontare con occhi di osservatrice attenta questo periodo, diciamolo, un po' complicato. Inviata del Foglio per le aree di crisi (definizione che il più delle volte significa in guerra), è podcaster con Stories e ha narrato gli eventi in Venezuela, Cile, Iran, il ritorno dei dogmi talebani in Afghanistan nel 2021, l’invasione russa dell’Ucraina, e oggi lo scontro tra Israele e i palestinesi. Ha scritto un libro, L’incendio, in cui ha raccolto vicende che aiutano a capire che cosa sta succedendo. Il dialogo in Vecomp Academy con Francesco Masini – bravo nel favorire lo scorrimento del suo fiume in piena – è scaturito dal “perché”, come piacerebbe a Simon Sinek.

Le ha chiesto semplicemente com’è che finisce sempre dove ci sono casini, soprattutto se all’estero. “Ho capito al liceo che volevo fare questo mestiere: l’idea ingenua e romantica di un giornalismo di grandi inviati per grandi fatti, altro che cronista parlamentare tenuta a strappare a Renzi la battuta su Calenda o viceversa”, la sua risposta. “Volevo fare la reporter nonostante sia un settore in crisi e sapendo che sarebbe stata dura trovare qualcuno che mi ci mandasse da inviata, visti i costi. Così ho iniziato in redazione costruendomi un profilo da freelance: non mi ci mandavano, ma apprezzavano che ci andassi prendendomi le ferie per seguire le crisi: come nel Venezuela per lo scontro tra Maduro e Guaidó. Imparando il mestiere sul campo speravo che qualcuno mi assumesse, per non riuscire solo a coprire le spese. Lo hanno fatto Claudio Cerasa al Foglio e Chora Media di Mario Calabresi, che voleva la prima inviata podcaster. E con questo spirito è nato Stories, oggi a oltre 530 puntate”.

Anche con una testata alle spalle è comunque un lavoro faticoso. Si sceglie quale crisi andare a seguire, anche se alcuni fatti si impongono da soli: ad esempio il 7 ottobre con il massacro degli israeliani, o i talebani a Kabul nel 2021. In Ucraina Cecilia Sala c’era stata poco prima dell’invasione e voleva tornarci: aveva il volo proprio il 24 febbraio, nel giorno dell’invasione russa. Non ha potuto arrivare a Kyiv in volo da Roma, ma via terra, cercando quali fossero i confini transitabili: poi è passata in treno dall’Ungheria. E in Ucraina durante il coprifuoco aveva un asciugamano del bidet preso in albergo a farle da bandiera bianca.

Lo stesso in Afghanistan: caduto il governo nessuno poteva farle il visto, così è arrivata via Uzbekistan attesa da un amico. Ma passare la frontiera è stato, dice, “complicato”. Ci sono situazioni che si evolvono di continuo, e ogni cambiamento può essere pericoloso: “Adesso a Kyiv in un giorno tranquillo quasi non ti accorgi che sei in guerra, ma nel 2022 era una città spettrale, paranoica, dove i civili giravano armati. Se fosse stata accerchiata saresti rimasta isolata senza contatti, gli hotel chiudevano, non sapevi come muoverti. Un tizio col furgone di avrebbe portato fuori, ma il prezzo cresceva ogni giorno. Il pericolo è all’inizio, prima che la crisi si assesti e impari come muoverti. Metti nello zaino contanti e medicine, ti prepari”.

Il pubblico si schiera, ma come fa l’inviato a restare equidistante e non stare da “una” parte? “Diffido di chi si dice o si racconta neutrale”, spiega. “In alcuni momenti è più facile capire: in Iran non puoi non stare con la ragazza arrestata dalla polizia religiosa, o in Ucraina con le vittime del teatro di Mariupol. L’importante è non farsi annebbiare. Da giornalista so di poter cambiare idea, sono curiosa di sapere cosa succeda davvero. E puoi cambiare idea, se conosci i fatti. Per l’esplosione del gasdotto North Stream si pensava a un’operazione russa, poi sono emerse ipotesi contrarie. Lo stesso, ma peggio, in Israele. Dal 7 ottobre significa scoprire che tutti conoscono qualche vittima e condividono lo strazio degli ostaggi, ma ciò non ti impedisce di vedere e condannare le stragi a Gaza. Le preferenze non nascondono le dinamiche, come la morte dei volontari che portavano i pasti caldi a Gaza: quel convoglio è stato colpito più volte, se sei onesto ti fai delle domande, descrivi ma devi anche chiederti quali sono le logiche e i limiti del conflitto. Essere tifosi è comodo per non dover continuare a chiedersi chi ha torto e chi ragione, ma non arricchisce il dibattito né aiuta a migliorare le situazioni di crisi. Noi giornalisti invece dobbiamo cercare di capire dove stia la verità”.

Nel libro L’Incendio Cecilia Sala racconta le storie dei giovani: ucraini, iraniani, afghani sono i ventenni che ti mostrano il contesto, ti spiegano i motivi, gli effetti, la realtà del conflitto. I giovani sono il modo migliore per capire. In Afghanistan la coalizione se ne va e ritornano i talebani, che vengono visti come un’invasione aliena. Nei vent’anni dopo il 2001 si pensava che le cose potessero cambiare: elezioni cui partecipare, bambine da portare finalmente a scuola, donne vendute a mariti violenti che potevano tornare in famiglia. Dei passi avanti nonostante diseguaglianze, ingiustizie e corruzione. Ma tutto questo è stato annullato in un attimo. Stessa cosa in Iran, dove ammettono che la rivoluzione contro lo scià ha fatto solo danni e passi indietro, perché volevano mandarlo via, ma non per sostituirlo con il clero. La società iraniana è più libera di come la vorrebbe la repubblica islamica, e i ventenni vivono questi ideali di opposizione. A Kyiv la prima generazione nata senza il peso di essere sovietici (o ex) è quella dei giovani che protestavano a Maidan nel 2014: sanno che l’aggressione del 2022 è la punizione di Putin per aver guardato all’Europa. “Mi mostrano cosa succede in quei paesi, le origini delle crisi, come da quel passato ci si è ritrovati in questo presente”.

Ancora in Medio Oriente, ci incuriosisce e inquieta l’Iran che dal 1979 è nemico strategico ed esistenziale di un Israele che non dovrebbe proprio esistere: anzi, dovrebbe scomparire e così rendere migliore tutta l’area. Ma questo era valido un tempo: ora la causa palestinese di cui Teheran è sponsor da sempre vede molti Paesi arabi meno solidali, dagli Emirati ai Sauditi che guardavano agli accordi di Abramo alla Giordania e all’Egitto di Al Sisi, più vicino a Israele che ad Hamas. Per questo l’Iran ha finanziato e scatenato le sue milizie contro gli israeliani, comprese Hezbollah e gli Houti. Ma ora con il lancio di missili e droni ha ribaltato il principio di non attaccare direttamente Tel Aviv: è cambiato qualcosa? Sì, sostiene Sala: e questa risposta differente ha molto a che fare con le dinamiche di potere interne all’Iran.

Dell’Ucraina Mosca continua a dire che è colpa dell’Europa e della Nato, per spingerci a non aiutarli più a difendersi. Ma la Nato non costringe i Paesi ad aderire, sono i Paesi a chiedere di essere ammessi: e anzi, spesso la risposta era no, come era stato detto anche all’Ucraina perché il rischio di un confronto con la Russia era troppo elevato. Ma se Kyiv fosse entrata Putin non avrebbe attaccato e avremmo avuto meno problemi sia geopolitici che economici. Però l’Europa comprava il gas russo, ed è complicato staccarsi da certe relazioni tossiche.

È sempre difficile capire come evitare le crisi, non ci sono regola standard. Però sembra sia sempre colpa dell’Occidente, e per sostenere questa tesi si cita l’Iraq: ma l’invasione di Kyiv è vera, non basata su informazioni false. Eppure in Ucraina i morti civili aumentano proprio perché non mandiamo più munizioni per la difesa aerea. C’è una ragione strategica per non farlo? No, e infatti è Putin che continua a bombardare per spingere gli ucraini a cedere. Cosa che non succederà: infatti neanche Hamas ha smesso di combattere. Si torna – a sproposito – agli accordi di Minsk, quando Putin fingeva di trattare mentre militarizzava la Crimea: un’aggressione camuffata da “denazificazione” per prendersi tutta l’Ucraina.

Si va verso la fine dell’incontro, ma il flusso di domande non si placa. Oltre le guerre c’è la politica: come la si affronta? “Quella europea mi appassiona poco”, confessa Cecilia Sala, “ma ho parlato molto con gli agricoltori, e quella è una vera crisi europea. Poi c’è il dibattito sull’esercito europeo e sul futuro della Nato. Sulla difesa la Von der Leyen è vicina a Macron, che però in Francia perde colpi. Poi deve trattare con Scholz, un tedesco come lei ma politico socialdemocratico… Insomma, parlo di tutto, ma senza farmi trascinare nel politichese”. Un dubbio sul ruolo dell’informazione: ci si può fidare o bisogna fare tutti come lei, “andare a vedere”? “Ho la sensazione che nessuno si fidi più se non di chi ha visto con i propri occhi, ma non è possibile. Disinformazione e cattiva informazione sono il rischio: non tanto il deep fake, ma non credere neanche ai video veri… Infatti i russi contestano gli ucraini sui crimini di guerra: non sarebbero foto vere ma create dall’intelligenza artificiale. Se non c’è fiducia nelle prove si mette in crisi la coesione sociale, il che mi turba tantissimo”.

Cambio di scenario: dovremo affrontare anche una crisi Cina-Taiwan? “Spero e credo di no, ma non credevo neanche all’attacco dell’Iran a Israele, all’attacco a Kyiv o al ritorno dei talebani a Kabul. E come me la pensava la CIA… Invece confronterei la Cina con la Russia. Putin si sente umiliato e a disagio con questo ordine mondiale, mentre Pechino ci guadagna un sacco, è felice che la Russia sia indebolita dalle sanzioni e che gli Stati Uniti facciano brutte figure e siano impantanati nelle crisi. Ma non penso vogliano una rivoluzione globale, dalla quale avrebbero molto da perdere. Certo possono essere decisi e brutali come a Hong Kong, ma una guerra potrebbe non rientrare tra le loro ipotesi strategiche immediate”.

Per chiudere, qual è il rapporto di Cecilia Sala con la paura? “Credo debba essere “sano”, perché è un’emozione fondamentale. Non ho paura di andare nelle aree di rischio, però ne ho quando lo vedo e lo riconosco. Se avessi paura per il solo fatto di andare in Ucraina smetterei di fare questo mestiere. Però sbaglierei anche se non mi preoccupassi nemmeno sotto le bombe: allora sì che sarei più in pericolo e metterei a rischio anche gli altri, come purtroppo capita. La paura c’è quando ci deve essere: non sempre, né mai”.