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La reputazione: tempo e fatica per crearla, un attimo per perderla. Ma è giusto anche rischiare, per cambiare aziende e società
Daniele Chieffi

La reputazione: tempo e fatica per crearla, un attimo per perderla. Ma è giusto anche rischiare, per cambiare aziende e società<br> Daniele Chieffi

La reputazione: tempo e fatica per crearla, un attimo per perderla. Ma è giusto anche rischiare, per cambiare aziende e società
Daniele Chieffi

Brutte figure in buona fede, scivolate per disattenzione, poca conoscenza dei meccanismi della comunicazione social: oggi c’è un girone infernale dedicato a chi sottovaluta l’effetto (di solito negativo, a volte letale) di una scelta poco felice, di un affare andato male, di un manager che se ne va, del pubblico che ti giudica “bravo ma troppo caro”. La percezione delle community diventa una sentenza che è più forte della verità e può – davvero! – determinare successo o fallimento di un’azienda grande o piccola, o di uno studio professionale. La soluzione? Prevedere che rischi potrebbero presentarsi, formare una squadra di analisti e comunicatori, tenere gli occhi aperti. Ma se si vuol essere coerenti con i propri valori arriva il momento di uscire allo scoperto e fare scelte forti, come appoggiare una campagna sociale. Il pericolo di scontentare parte del proprio pubblico c’è sempre, ma soprattutto oggi non esiste un’alternativa a essere “veri”. Sembrarlo non basta: e la reputazione potrebbe guadagnarci.


Daniele, il treno è arrivato in leggero ritardo”, apre Francesco Masini: “visto che si parla di reputazione, prova a dirci come si fa a risollevare quella di Trenitalia…” Bella provocazione, cui Chieffi risponde serafico: “Comincino a far arrivare i treni in orario. Sembra banale, però se fai anche solo quello che sarebbe il tuo compito normale, è già un passo avanti”. Sintesi mirabile, quella del giornalista-saggista-scrittore, docente universitario, creatore di BiWise, con esperienze anche da direttore della comunicazione e PR al ministero dell’Innovazione e all’agenzia Agi del gruppo Eni. È in Vecomp Academy per parlare della “Reputazione ai tempi dell’infosfera” (il libro che ha scritto nel 2020) e di quanto costa non occuparsene, seguendo il fil rouge della stagione 2024-25 di Open. Argomento, bisogna ammettere, che le aziende faticano a trattare per quello che è: una questione sempre più strategica.

A parte i brand famosi, nelle aziende anche medie e grandi non ci sono né le figure che se ne occupano né funzioni dedicate alla comunicazione istituzionale e alle crisi reputazionali”, conferma Masini. “Per questo vogliamo uscire dai grandi fatti che fanno notizia e provare a scendere al nostro livello, parlando di persone e di professionisti che lavorano nelle PMI del territorio. E cominciamo dalle basi: che cos’è la reputazione? E cosa vuol dire infosfera?

Chieffi mette subito il dito nella piaga: nelle imprese la reputazione è considerata un orpello, un abbellimento, e quindi un costo in più da sostenere. “Mi dicono: sì, vabbè, ma io ho altre cose da fare, non posso occuparmene. E questo andrebbe anche bene finché non esplode il problema, il che può succedere letteralmente a tutti. E dopo sono guai, ma guai seri, veri”. Un esempio chiarisce che la bomba può scoppiare anche nelle attività più normali, dove non ce la si aspetterebbe mai. Una ristoratrice di Mantova, poco abituata alla Tv, ha partecipato al gioco di Alessandro Borghese in cui quattro cuochi si danno reciprocamente i voti. Però c’è andata giù un po’ pesante con i colleghi, e il suo un momento di visibilità-promozione si è trasformato in un incubo, generando una tempesta social che le si è rivoltata contro.

“Si è comportata in modo non particolarmente simpatico, è stata aggressiva, magari odiosa: ma è un gioco e ognuno lo interpreta come vuole”, commenta Chieffi. “Però il giorno dopo è partita una shit-storm (una tempesta color marrone, per dirla con eleganza) approdata fin sulle prime pagine di tutti i giornali. E questa è l’infosfera con tutta la sua potenza. Drastico calo di clienti, settimane col locale deserto, pesanti attacchi personali. Eppure è una semplice ristoratrice come in Italia ce ne sono decine di migliaia, non una grande catena di ristoranti. Cosa ci dice questo? Che rispetto a una volta siamo arrivati al punto in cui non conta più ciò che accade, se la ristoratrice sia o no una cattiva persona: importa che le persone ritengano che non è opportuno andare a cena nel suo ristorante, che così resta vuoto. Poi si riprenderà, le persone scorderanno e torneranno. Ma la botta l’ha presa, e bella forte. Allora quanto ci costa trascurare i rischi reputazionali, quando tutti giudicano quel che vedono a prescindere da quel che succede davvero, e su questa percezione costruiscono la loro idea di realtà?”

Ricapitolando da questo fatto minimo ma indicativo: no, non vado in quel ristorante perché me ne hanno parlato male. Neanche perché credo che lei si sia comportata male. Non vado perché penso che nella mia bolla-comunità le persone non mi approverebbero. Se entriamo in quest’ottica allora non c’è più differenza fra piccola e grande azienda, tra Chiara Ferragni e il ministro Gennaro Sangiuliano. “La crisi di reputazione può colpire tutti, anche me”, dice Chieffi. “Per questo se in un libro sostengo una teoria che potrebbe essermi contestata, sento l’esigenza di prepararmi risposte adeguate. Definisco uno scenario per cui se mi attaccano per una certa cosa rispondo in un certo modo e ragiono sull’atteggiamento da tenere. Perché se non riesco a difendermi in maniera efficace la mia credibilità di autore viene meno, e con lei la mia reputazione, cioè quello che gli altri potrebbero pensare di me”.

Ci sono aziende che hanno perso oltre il 50% del fatturato, finiscono fuori mercato, i clienti se ne vanno. Chiara Ferragni è sparita, eppure rappresenta un’azienda da 100 milioni... Le grandi imprese sono più solide, come l’ENI o la Barilla, che è riuscita a uscire viva da una crisi devastante, causata peraltro da una maldestra dichiarazione del suo presidente. Ma a rischiare di più sono le piccole e medie, perché chi “ci resta sotto” non ha la forza tecnica o economica per rialzarsi o per ingaggiare in piena crisi un consulente che tenti di fermare la marea. A quel punto è troppo tardi, e io lo dico sempre agli imprenditori: pensateci prima! Un rischio che corrono anche le aziende del territorio: basta una grossa multa, lo scandalo che non ti aspetti, la malattia del titolare, un manager che se ne va. E clienti e fornitori non hanno più la loro figura di riferimento, il commerciale, il project manager. Fiducia e rapporti interpersonali sono alla base di equilibri delicati: se saltano, nel giro di pochi giorni l’azienda si trova ad affrontare problemi molto seri, come se non pagasse i dipendenti o ritardasse le consegne. E in un contento piccolo le voci inizierebbero a girare alla velocità della luce.

Ledere aspettative consolidate”, conferma Chieffi, “dovrebbe spingere l’impresa a inserire nei propri processi una costante valutazione del rischio reputazionale che un cambiamento qualunque potrebbe comportare. La domanda è sempre la stessa: questa cosa come verrà vissuta dai miei stakeholder? Bene, male, la ignoreranno, quanto a lungo durerà l’effetto sul business? E vale anche per le scelte di investimento, sull’affrontare nuovi mercati o prodotti. Bisogna analizzare pro e contro di tutto, come un business plan sulla percezione dei rischi e sull’eventuale contenimento dei danni. Ecco perché alcune aziende grandi stanno inserendo i comunicatori nei CdA: non perché ci mettano il naso, ma per valutare i potenziali impatti. Se diventasse parte della cultura imprenditoriale sarebbe già un passo verso la sicurezza”.

La vera criticità – motivo per cui occorre prepararsi prima che la crisi arrivi – nasce quando senti tre sensazioni: l’assedio, cioè sentirti addosso tutti che ti criticano, ti chiedono cosa succede, social media e giornali in testa; l’incapacità di tenere sotto controllo quel che sta accadendo; e la paura di perdere tutto, che ti congela e non ti fa ragionare serenamente sui correttivi da applicare. Il lavoro, la posizione, il valore dell’azienda è in gioco e non riesci a essere freddo. Perciò meglio affidarsi a consulenti esterni che riescono a essere distaccati e lucidi. “Bisogna fare tanta formazione, prepararsi all’impossibile, a gestire i media, cogliere le voci dell’infosfera”, spiega Chieffi. “Fare simulazioni con un team che attacca con efficacia e realismo, da far piangere i manager per la rabbia di non gestire neanche un’esercitazione. Quando poi a volte basterebbe cambiare l’atteggiamento con cui si affrontano le sfide”.

Paradossalmente è meno difficile gestire i rischi finanziari o di produzione di quelli collegati alla reputazione, pericolosi e incontrollabili perché non dipendono dai numeri ma da quanto le persone giudicano grave quello che stanno vedendo. Può succedere anche in una nicchia di mercato: in gioco piccoli numeri, che però possono essere letali per un’azienda minuscola e la sua comunità locale.

“Il mondo oggi ha strumenti di comunicazione così potenti che una Maria Rosaria Boccia può costringere un ministro a dimettersi, può smentire in diretta una presidente del Consiglio e trasformare una storia privata in un caso politico, perché questo è successo”, sottolinea Chieffi. “E siccome può capitare a tutti, facciamo un test: chiediamo a un amico secondo lui come ci vedono le persone, e in base alla lettura vaccinarsi dal rischio, rafforzare la nostra reputazione. Forse potremo salvarci da piccoli errori, che però possono diventare problemi enormi anche per aziende serie, se li trascurano o li maneggiano male”.

Continuiamo con gli esempi. Non ci sono solo le aziende grandi e piccole. Anche gli artigiani, senza essere la Ferragni, corrono rischi di reputazione. Si narra che sono sempre in ritardo, che sono introvabili, e sono carissimi quando ci sono. Hai voglia spiegare ai clienti la qualità dei prodotti, che sei in linea col mercato e il lavoro è tanto: la percezione rimane ed è difficile da contrastare. Perché oggi la realtà non c’interessa: la bolla in cui viviamo è dominata dalle dinamiche sociali e psicologiche, tanto che ciascuno di realtà conosce soprattutto la propria e quella della comunità che frequenta e lo influenza. Ciò che conta è la convinzione che ci costruiamo, quasi con un sondaggio in diretta: sento dire che gli artigiani sono introvabili e cari? Non mi interessa verificare, perché questo è già “vero”, conferma quello che penso e sento dire in giro. Modificherei opinione se lo facessero tutti: ma dovremmo cambiare la convinzione collettiva, perché quella del singolo si disperde dentro il contesto sociale.

“Chi rappresenta le categorie dovrebbe occuparsi di come vengono percepite. Pensiamo agli avvocati negli Stati Uniti: la gente li odiava, mentre amava i pompieri, per fare un esempio. Le percezioni possono cambiare se si è bravi a convincere, più che a informare: e lo dico da comunicatore”, ammette Chieffi. “Se le persone sono certe di un giudizio, prima che cambino idea quanto tempo passa prima che il sentire comune si modifichi? Succede, ma solo quando la gente sente che anche altri stanno cominciando a pensarla diversamente. E così via”.

C’è poi la questione della crescente polarizzazione: se una persona giudica negativamente qualcuno dell’altro lato della barricata politica, è proprio lo schieramento che determina i pareri, indipendentemente dagli atti e dalla loro consistenza. Da qui anche il tipico gioco dei salotti (della politica o della buona società), oggi sostituiti dalle chat di Whatsapp: il tuo “valore” dipende dal fatto che tu faccia parte della rete o no. E lì, anche di fronte all’evidenza – esempio: uno patteggia per corruzione, quindi ha ammesso di aver commesso il reato – nei commenti metà lo crocifigge e l’altra lo assolve per il suo ruolo o la sua “squadra”. Così prima di prendere posizione si cerca di comprendere a chi piacere o dispiacere meno.

La politica, la comunicazione, le imprese, gli influencer… Un caleidoscopio di aneddoti che Chieffi rende visibile spiegando la reputazione minimal: come succede nelle piazze di paese dove a forza di chiacchiere uno viene lentamente emarginato. Anche in quella aziendale i valori contano molto: ma sono quelli veri o quelli della narrativa? Bella domanda: contano se sono in sintonia con quelli della propria community, ma tornano come un boomerang se non vi si è davvero coerenti. Siccome le persone non si riconoscono nel brand o nella qualità, ma nei valori, se sono finti sono guai. Come per la sostenibilità o la parità di genere: sono temi portanti, ma se ci si limita a dichiararli senza fare niente è peggio che ignorarli del tutto.

A volte ci sono temi che smuovono la società con la forza di un pugno in faccia, come le foto di Oliviero Toscani degli anni Noventa: il diavoletto nero e l’angioletto biondo, il prete che bacia la suora… minacciavano o no la reputazione di Benetton? No, se ne parlava guardando una società che stava iniziando a cambiare di corsa, con l’azienda che interpretava il nuovo corso. Ecco, le scelte: a volte i brand prendono posizione (i maglioni di Treviso come le Nike in campo per Black Lives Matter, oppure la modella di colore su Vogue Italia). Sposare una campagna sociale significa scegliere di incarnare i valori del marchio. La reputazione diventa concreta ma comporta rischi e polemiche, perché non esistono contenuti che piacciano a tutti. Il meteorite della Motta, cinico al punto giusto in un’era così zuccherosa, invece ha colpito tutti e ha salvato il prodotto, perché il Buondì era in punto di morte ed è tornato a riempire gli scaffali, riprendendosi quote di mercato. Comunque le aziende sono costrette quasi sempre a prendere posizione, perché community e stakeholder se lo aspettano.

Alla fine del giro sull’ottovolante della reputazione Daniele Chieffi non ha potuto sottrarsi a un secondo round sul caso Sangiuliano, pungolato da Francesco Masini che gli ha chiesto se la vicenda sia stata gestita, mal gestita o non gestita affatto. Nessun dubbio: “Non gestita. In televisione non ci doveva andare proprio, non doveva fare quell’intervista e umiliarsi così. Soprattutto non doveva umiliare la moglie, perché le altre persone non vanno coinvolte. Certo, da un po’ girava la voce che ci fosse qualcosa con la Boccia, ma sentirsi dire che sei cornuta in diretta sul TG1 non fa bene”.

Quindi”, ha affondato Chieffi, “a parte l’aspetto etico un po’ ributtante di buttare tua moglie in pasto alle prime pagine per tentare di salvare la situazione, sono state completamente sballate la strategia e la modalità. Non ha funzionato il modo in cui guardava in macchina, né fermare mezzo Paese per piazzare la striscia dopo il telegiornale... Tutto per ammettere in prima serata che io, ministro della Repubblica, sono stato poco intelligente. Neanche consapevole di che errore enorme sia stato indebolire ancor di più non la sua persona ma la percezione delle istituzioni. E terminare con una nota ufficiale del ministero della Cultura per smentire un post su Instagram... Ma non hanno un amico?