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L’economia civile che porta gli uomini a collaborare per il bene comune: un appassionato invito verso un futuro “alternativo”
Stefano Zamagni

L’economia civile che porta gli uomini a collaborare per il bene comune: un appassionato invito verso un futuro “alternativo” <br> Stefano Zamagni

L’economia civile che porta gli uomini a collaborare per il bene comune: un appassionato invito verso un futuro “alternativo”
Stefano Zamagni

La nuova stagione di Open aperta dal coinvolgente viaggio tra un passato di riflessioni filosofiche e la realtà del mondo del lavoro. Ci vorrebbero aziende per le persone e persone per le aziende, ha spiegato il docente, che ha anche affrontato il complicato “triangolo della sostenibilità” e si è espresso contro la meritocrazia, definita “nemica della democrazia e anche delle imprese”. Uno spirito battagliero con cui ha riletto il passato, dalla rivoluzione industriale al capitalismo coloniale, fino a un’attualità fatta anche di scuole e di ospedali, di benefattori che potrebbero investire i loro guadagni per sostenere lo Stato e aiutarlo a essere più giusto. Un mondo che ai primari più competenti chieda di lasciare spazio ai medici empatici, che sappiano sorridere ai bambini. Una partenza della serie 24-25 che mostra un modo nuovo, meno didattico ma più avvincente – quasi in uno spirito di competizione tra le idee – per dialogare di economia e sviluppo, equilibri e società senza temere le opinioni divergenti.


C’era una volta il convegno. Quando le aziende volevano imparare qualcosa di nuovo, c’era da fronteggiare una crisi o prepararsi ai cambiamenti del mercato, una bella tavola rotonda e passava la paura. Che si ottenesse il risultato voluto non era scontato, ma il convegno e i suoi derivati erano lo strumento principale, se non l’unico, della formazione per le imprese. Certo, il mondo era un posto semplice e la complessità era meno complicata di adesso, ma questa formula scolastica con le nozioni impartite dalla cattedra ha fatto decisamente il suo tempo, anche se non tutti sono in grado o hanno voglia di andare oltre, altrove.

Tanto che le locandine dei simposi pensati (ehm…) per le aziende si chiedono “Cosa ci costa fare così?”, o al massimo si azzarda “Cosa ci guadagniamo se…” Ma questa è davvero cultura d’impresa? Risposta semplice semplice: no. La cultura d’impresa non è un seminario tecnico o un corso pratico, sarebbe un peccato se insegnasse solo “fare” qualcosa. Deve far pensare, deve provocare reazioni, guardare il mondo da un’altra angolazione, accendere lampadine nelle zone buie. Insomma, aprire la mente perché ne vengano fuori idee utili e inedite.

Da sei anni è proprio quello che sta facendo Open, il format lanciato in Vecomp Academy e condotto con crescente successo e uno stile scorrevole e disinvolto da Francesco Masini. Le prime cinque stagioni hanno aperto gli occhi a chi pensava di assistere ai soliti chiacchiericci sui massimi sistemi o sui micromondi dell’economia. Come affrontare la crisi da pandemia e ripartire? Come crescere con l’innovazione? Come ci si abitua a vivere nelle emergenze? Ci interessano le elezioni americane? E il calo delle nascite? I gusti dei clienti? E l’emergenza climatica? Sì, sì e ancora sì. E adesso più che mai bisogna alzare lo sguardo e pensare a cosa ci costa ignorare temi chiave solo perché non fanno rumore e crescono lentamente.

Così Open ha inaugurato la stagione 24-25 girando di 180 gradi la bussola del management aziendale. Non più “Quanto ci costa farlo?”, ma “Quanto ci costa NON farlo?” Argomenti spinosi, che ci faranno stare scomodi, affidati a ospiti-personaggi capaci anche di rompere la barriera del conformismo. Anche con il ricorso a toni e un linguaggio che scuotono il rito della formazione aziendale. Perché certi temi accantonati devono uscire dai cassetti e avere le risorse necessarie e costanti per essere risolti. Riconoscere che ci siamo distratti ridurrà i rischi di trascurare una parte cruciale del business. Un salto logico che richiede decisione e che va rivolto alla parte più preziosa e potenzialmente più fragile di un’azienda: le persone.

Protagonista perfetto per una partenza a testa bassa del nuovo Open è stato il prof. Stefano Zamagni, che da vent’anni è impegnato all’università e nella società a diffondere una cultura d’impresa più attenta a questa dimensione dell’economia. Il suo pensiero è che l’azienda in futuro dovrà investire più energie e risorse sulle persone e sul contesto sociale. Zamagni insegna economia dal 1978 alla Johns Hopkins University, oltre che a Bologna, a Firenze e in vari master in Italia e all’estero. È considerato un eccellente conferenziere e instancabile divulgatore dell’economia civile con la forza degli argomenti (e anche della sua oratoria).

L’inizio è apparentemente didattico. “Che cos’è l’economia civile? Lo spiego paragonandola all’economia reale. A metà Settecento Antonio Genovesi, sacerdote e scrittore, economista e filosofo, mentre insegnava all’università di Napoli pubblicò le sue opere più importanti, le Lezioni di economia civile. Più o meno negli stessi anni in Scozia nasceva l’economia politica, prendendo forma dagli scritti di Adam Smith. La differenza è che l’economia civile sostiene che gli uomini sono per natura amici e tendono a collaborare al bene comune, mentre per l’economia politica ha ragione il filosofo Thomas Hobbes: e cioè”, spiega Zamagni, “l’uomo è un animale mosso dall’egoismo”. In sostanza ogni uomo è lupo per gli altri uomini.

Su queste premesse gli studi economici anglosassoni passarono dalla filosofia all’economia totalmente politica. E siccome l’Inghilterra era un grande impero coloniale, poteva dare vita al suo rapido sviluppo industriale: da sistema di pensiero a dottrina economica trasportata in tutto il mondo, dove ha messo solide radici e nulla o quasi è ancora riuscito a metterla in discussione. Dopo la Seconda guerra mondiale il declino del colonialismo britannico ha poi mutato gli equilibri del potere economico e politico, spostandosi negli Stati Uniti. Da allora l’economia civile come dottrina ha finito con lo scomparire e sopravvive solo sotto traccia.

Ma vitale è rimasto il suo spirito, che è massimizzare il bene comune”, precisa Zamagni con una metafora. “Se per l’economia politica questo bene comune si può rappresentare come una somma, per l’economia civile equivale invece alla moltiplicazione. E infatti considera in questa prospettiva come fine più importante quello di allargare la torta di cui tutti possono nutrirsi, ciò che per noi oggi è il PIL, il Prodotto interno lordo. Invece l’economia politica non fa lievitare la torta ma serve solo per dividerla, e ciò aumenta la disuguaglianza e le storture. In troppi infatti non possono né accedere al mercato né partecipare alla distribuzione delle risorse generate, e questo alla lunga danneggia le imprese stesse”.

Il vantaggio dell’economia civile, secondo Zamagni, è di consentire invece anche l’ingresso dei cosiddetti corpi intermedi di rappresentanza sociale, come la famiglia o le organizzazioni che tutelano gli interessi dei cittadini. In questo modo, partendo da una base umanistica, si potrebbe creare sviluppo per le imprese e per il commercio, che in effetti avevano mosso i primi passi proprio in Italia. Ma questo richiede l’assunzione di una maggiore responsabilità: un concetto che secondo l’etimologia significa “rispondere delle conseguenze delle proprie azioni”, oppure secondo un’altra lettura “la responsabilità è sentire il peso delle cose”.

Nella “società del progresso” in altre parole dovrebbero esserci persone che si caricano sulle spalle il peso di ciò che non funziona. Zamagni fa l’esempio degli imprenditori illuminati, che possono disporre delle ricchezze generate dalle loro imprese e potrebbero quindi affiancarsi allo Stato o sostituirlo negli ambiti in cui non funziona. Oggi il riferimento immediato va alla scuola o alla sanità: persone per bene che scelgono di investire le risorse di cui dispongono e il personale che da loro dipende per pianificare gli interventi a favore della società. Forse alcuni darebbero uno stimolo alla scuola solo per assicurarsi i dipendenti di domani, quindi suggerendo alle scuole che materie studiare: ma i vantaggi di questo “spirito cooperativo” darebbero vita a un nuovo modello di collaborazione. Prendersi cura della società e operare per il bene comune, suggerisce con molto ottimismo Zamagni, porterebbe vantaggi a tutti.

Un altro aspetto – collaterale all’economia civile ma altrettanto forte – è la meritocrazia. Un termine lanciato negli anni Settanta e che richiama la necessità di premiare i migliori. “Ma col tempo questo approccio si è rivelato del tutto sbagliato, tanto che mi sento di dirvi che la meritocrazia è nemica della democrazia, perché in un mondo giusto il potere va al popolo, cioè a tutti”, ha esordito Zamagni, che preferisce utilizzare il termine “meritorietà”, quasi per sottolineare che occorre riconoscere a ciascuno ciò che merita, non meno e non di più.

Inoltre la meritocrazia è nemica anche delle imprese: perché si dà voce solo ai vertici, mentre tutti, non solo quelli bravi dovrebbero poter pensare e poter dire la loro opinione”. Un giudizio che suggerisce anche alla sanità, sintetizzando così: “I concorsi negli ospedali non dovrebbero vincerli i concorsi per forza i medici migliori, meglio i più empatici. Perché i primi saranno più competenti, ma non basta, se non sanno sorridere ai bambini. Quindi non va bene avere primari super bravi quando tutti gli altri fanno da sottoposti”.

Un altro tema che Zamagni considera rilevante affronta con interessanti approfondimenti è la sostenibilità. “Ne identifichiamo tre differenti versioni, che formano insieme un triangolo: sostenibilità ambientale, economica e sociale. Però è una formula difficile da costruire e da raggiungere. Ne abbiamo esempi nella stessa Unione Europea: se una scelta accontenta uno dei tre lati del triangolo, favorendo una certa categoria o risolvendo un problema ma ne crea un altro, può trascurare il secondo lato, colpire il terzo e così via, reciprocamente”, chiarisce.

E prosegue andando al nocciolo della questione. “Come si può difendere l'ambiente, una scelta necessaria, se per farlo si danneggia l’equilibrio nel sistema delle aziende? Il punto è che non possiamo aprire nuovi buchi solamente per chiudere quelli vecchi. Invece di puntare alla mitigazione o all’adattamento sarebbe utile adottare politiche di trasformazione”, conclude prendendo spunto dal Papa che propone piuttosto di modificare gli stili di vita.

Un altro cambiamento necessario sarebbe poi avere più collaborazione nelle aziende, dice: “Imprese che pensino alle persone, in modo che le persone possano dedicarsi alle imprese. Perché mentre gli animali pensano solo a mangiare, gli uomini hanno bisogno di esprimere nel lavoro anche la loro personalità. Quindi una volta coinvolti possono restituire all’impresa non solo l’equivalente del loro impegno professionale, ma molto di più. Avremo produttività in crescita quando i dipendenti si accorgeranno che la loro azienda valuta positivamente il lavoro: e si affezionerebbero all’impresa al punto da “regalare” le loro competenze”.

Con queste parole di Stefano Zamagni si può dire che la stagione 24-25 di Open è scattata bella carica, con una serie di spettacolari provocazioni sul tema dell’economia civile. Ed è la conferma della scelta di Vecomp di impegnarsi per creare una cultura d’impresa che sia di stimolo per generare confronto e nuove riflessioni. Dopo l’incontro di apertura rivolto alle Persone, il percorso del format si svilupperà da qui a marzo con altri incontri su tematiche altrettanto rilevanti per le strategie delle imprese, oggi fondamentali per la competitività e la sostenibilità ma spesso trascurate o mal gestite. Sentiremo spiegare quanto ci potrebbe costare non occuparci di reputazione e di tecnologia, di geopolitica e di dati economici. Invece non serve chiedersi quanto potrebbe costarci seguire questi incontri: anche nel 24-25 l’ingresso alle serate di Open è gratuito. Nel segnale anche questo: per aprire la mente basta iscriversi.