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Francesco Costa
Le mille identità del paese che si avvicina alle elezioni più importanti di sempre. E una sorpresa: il nuovo secolo americano

Francesco Costa <br> Le mille identità del paese che si avvicina alle elezioni più importanti di sempre. E una sorpresa: il nuovo secolo americano

Francesco Costa
Le mille identità del paese che si avvicina alle elezioni più importanti di sempre. E una sorpresa: il nuovo secolo americano

Il solo modo per descrivere il continente USA è guardarsi intorno quasi a caso, per descrivere quello che vedi e far parlare quelli che incontri. Il vicedirettore de Il Post, arrivato al quarto libro sugli States, “Frontiera”, ha raccolto pezzi di vita per ricomporre il mosaico del popolo che a noi sembra difficile da capire. Misto di origini e culture, abitudini e atteggiamenti, valori e principi, cittadini che fatichiamo a incasellare e a definire soprattutto politicamente, come sta dimostrando l’ormai prossima sfida tra Biden e Trump. Per inaugurare il Late Show – che dalla prossima stagione sarà la nuova formula di Open in Vecomp Academy – non c’è stato un abituale botta e risposta conduttore/ospite, ma brevi siparietti dedicati a camerieri, candidati, case da rifare e arredare, armi e massacri, birra e latte a taniche. Quasi impossibile da raccontare, eppure un ottimo giornalismo che informa facendo spettacolo. Con una conclusione che spiazza: nel futuro sventolerà ancora la bandiera a stelle e strisce. Ciao Cina...

Testo di Stefano Tenedini

Eh, si fa presto a dire America. Ma spiegare che cosa sia l’America – anzi tutte le Americhe che abitano dentro gli Stati Uniti – è un tunnel nel quale chiunque ci provi si infila ma non ha la certezza di uscirne senza un’ammaccatura ma con almeno una definizione accettabile. Inutile raccogliere uno, nessuno o centomila luoghi nell’elenco delle Americhe. Il solo modo sensato per descrivere il continente USA è guardarsi intorno in apparenza a caso, descrivere quello che vedi e far parlare quelli che incontri. Gli americani. Perché è chi abita in questo puzzle umano che può darci la misura di cosa ci sia tra i prati e le praterie e tutto il resto.

Ci hanno provato per due secoli e mezzo scrittori, poeti, viaggiatori. Nell’ultimo secolo però la palla è passata ai giornalisti, forse perché sono abituati a vedere e raccontare la cronaca, non la storia. Ma neanche questo è facile, perché in “America” l’attualità accade prima che da noi, e quando ci arriva è già mezza superata. Bisogna quindi raccogliere a piene mani episodi, opinioni, storie minime e tendenze, sintetizzare senza cercare il filo logico (che non è detto ci sia) e pubblicare tutto prima che cambi come il tempo in marzo. Non è da tutti: ci vogliono curiosità, sensibilità, attenzione, sintesi, rapidità, onestà intellettuale. E altro.

Uno di quelli che ci stanno riuscendo bene è Francesco Costa, che traccia una strada nuova invece di ripercorrere quelle già percorse da molti altri. In quattro edizioni è arrivato ormai alla quarta (apprezzatissima) presenza agli incontri dedicati alla cultura d’impresa proposti da Vecomp Academy. Anzi, tre partecipazioni e ora la prima assoluta: il Late Show ideato da Francesco Masini, che ha dismesso i panni dell’intervistatore per dare finalmente spazio alla sua vera passione, fare il conduttore alla David Letterman. Cosa sarà, come e con chi lo scopriremo in autunno a inizio stagione, ma la preview è stata un autentico spettacolo.

Show al quale Costa (giornalista e vicedirettore del quotidiano online Post) si è prestato molto volentieri, anche grazie alla formula che non prevede una scaletta prefissata ma uno tsunami di domande cui rispondere ognuno col proprio stile e ritmo. L’occasione? Il quarto libro dedicato agli States dopo Questa è l’America nel 2020, Una storia americana del 2021 e California (2022): Frontiera, uscito da poco. Ma di che frontiera parla? Quella col Messico che ferma gli immigrati, quella economica verso la Cina, o quelle culturali, etniche, di classe e reddito? Quella delle tante identità che non si sciolgono nel melting pot e superano tutti i cambiamenti? O quella politica che divide democratici e repubblicani a pochi mesi dal voto?

La risposta è nel nostro immutato interesse per gli Stati Uniti, per la mentalità e una società che spesso non capiamo, ma di cui non possiamo fare a meno. E per quanto approfondiamo ci sembra comunque che ne manchi sempre un pezzo. Quale? Boh. “Quindi occorre riempire questi vuoti con un racconto antropologico che dica come sono fatti gli americani”, spiega Costa. “Diversissimi da noi, che pure siamo immersi nella cultura statunitense - ed è uno dei motivi per cui non li capiamo o ci esprimiamo nei loro confronti in modo a volte sprezzante. L’ho costruito come un testo giornalistico con dati e studi scientifici, e soprattutto con tanti esempi concreti e storie …sì, sorprendenti, da tanto sono lo specchio reale dell’America”.

Lo stile di Costa è affrontare un tema un modo non lineare, facendo incursioni, aggiungendo dei numeri, raccontando un episodio che magari c’entra solo marginalmente. Poi ritorna al nodo principale, e accumulando pezzettini di immagini dal finestrino il lettore inizia a farsi la propria idea sugli States che attraversa. “Lo scopo del giornalismo è raccontare la realtà”, aggiunge, “solo che la realtà è complessa, non puoi comprimerla in parole e frasi: occorrono domande, risposte, esperienze, letture, strati su strati, sensazioni diverse. Questi frammenti provano a comporre un quadro dell’America, ma non una tesi: la conclusione la trarrete voi”.

Per chiarire quanti americani stiano in un solo americano (ma figuriamoci noi italiani, allora), dice che “ingenuity”, che noi traduciamo ingenuità e indica una persona sempliciotta, un credulone, per loro è ingegnosità, concretezza, pragmatismo. La stranezza rivelatrice è che a volte gli americani ci sembrano (e sono) persone semplici, bambini nei corpi di adulti e via così banalizzando. Ma sono entrambe le cose: l’entusiasmo infantile che li spinge a tuffarsi con le scarpe in tutto quel che fanno, ma anche una grande determinazione. Ecco perché ci stupiamo scoprendo che non chiudono la porta a chiave ma poi magari hanno la pistola nel comodino. Contraddizione? Per loro è naturale, se no Kennedy non avrebbe aperto la corsa alla Luna dicendo “ci andremo proprio perché è difficile”. E l’hanno fatto, mentre noi non prendiamo sul serio i politici che dichiarano “faremo il ponte sullo Stretto di Messina”.

Questo entusiasmo, racconta Costa, però può anche diventare una spinta pericolosa. Anche qui un esempio: negli Stati Uniti girano antidolorifici potenti e preziosissimi per chi soffre di dolori molto intensi. Peccato che funzionano così bene a fronte di prescrizioni “imprudenti”, che oggi ci siano 100 mila morti l’anno di overdose fuori dai contesti di tossicodipendenza. Da un tema all’altro: cosa ci stupisce spesso degli americani? La gentilezza del personale nei ristoranti, negli hotel o nei negozi. Tutti così disponibili e amichevoli che pensiamo: per forza, vivono di mance. Che almeno in parte è vero, ma non spiega tutto. La spinta viene dal coccolare ogni singolo cliente, che è il lubrificante per stimolare la propensione al consumo, vero e proprio motore dell’economia americana basata sui consumi interni come la nostra lo è sull’export. Quindi si fa di tutto per eliminare l’attrito da ogni esperienza di acquisto.

E qui Francesco Costa ha deliziato il pubblico della Academy con un siparietto perfetto per un Late Show. Lo riportiamo per intero perché è proprio l’infotainment fatto bene. Ma per tutti i passaggi ci vorrebbe il triplo dello spazio: ed ecco perché le prossime serate venite a godervele dal vivo… Iniziamo dal ristorante, un luogo ideale per confrontare USA e Italia.

Tu arrivi, ti siedi e la prima cosa che fa un cameriere americano è portarti da bere. Da noi accade meno, anche se si sta iniziando. Qui ti siedi e aspetti il menu, la tavolata sceglie con calma cosa ordinare, e di solito chiediamo ancora cinque minuti al cameriere. Che tornerà dopo dieci minuti. Tutti ordinano e lui/lei chiedono: cosa volete da bere? Naturali, frizzanti, birra, vino: insomma, il primo bicchiere te lo versi che sono passati venti minuti. In America ti mettono a tuo agio, da subito, dalla bottiglia d’acqua a tutto il resto della serata. C’è un cameriere che passa ogni dieci minuti a chiederti se va tutto bene… magari un po’ troppo, ma non capita mai come da noi quando non riesci mai a incrociare il suo sguardo, perché i nostri sono addestrati a lavorare senza guardare mai i clienti... Lo stile USA rende più facile il servizio senza sbavature. Se arrivano dieci pizze, lui si ricorda chi ha preso la Margherita e chi quella con i peperoni. A parte che puoi ordinare sempre quello che vuoi e il cameriere non ti giudica: vuoi un piatto di pasta e un cappuccino alle 4 del pomeriggio? Eccotelo”.

“La meraviglia è quando finisci di mangiare. Hai appena mandato giù l’ultimo boccone e non hai ancora chiesto il conto, ma immediatamente il conto arriva. No, non ti stanno cacciando via, puoi restare quando vuoi ma sei libero: anche di andar via subito. Alla cassa puoi pagare nei modi più creativi che ti vengono in mente: anche se siete in gruppo puoi dire “vogliamo pagare metà su queste due carte di credito, l’altra metà facciamo il 60% in contanti e il 40% in buoni pasto” e non faranno una piega, neanche all’ora di punta. Da noi i ristoranti spesso non fanno conti separati, e ne ho visto uno in cui “il sabato non si tagliano i panini a metà”. Se a un turista americano dicono che è finita la focaccia se ne va via sconvolto, perché lui è lì per spendere i suoi soldi in quel locale, e in America nessuno ti tratterebbe mai così”.

Già, perché tutto negli USA è costruito per facilitare i consumi: gli americani spendono una quantità mostruosa di soldi indebitandosi. È uno dei lati negativi della loro economia, anche a fronte del lato positivo che è la competizione: per questo galoppano sempre, e non solo i camerieri. Assurdità e contraddizioni si incontrano ovunque: ad esempio è difficile trovare il latte senza doverne prendere una tanica, o le muraglie di patatine al supermercato in mille diverse varianti, gusti, personalizzazioni. Patatine disponibili anche al gusto di altre patatine o acqua minerale aromatizzata. Non per niente fanno delle spese enormi, anche perché fare la spesa vuol dire prendere l’auto, guidare per 30 miglia e riempire i carrelli per nutrire un frigo gigantesco in una casa esagerata. Ecco perché bevono oceani di latte – anche grazie al mito del lattaio che arriva la mattina. Mangiano anche molto pollo: dopo tante campagne informative ora sanno che fa meno male della carne rossa. Però sul barbecue ci sono manzo e maiale. E sull’insalata c’è il pollo con sopra bacon, se non avverti prima il cameriere.

Dicevamo di case “esagerate”: dove vivono gli americani è un argomento che a noi italiani piace da matti. Lo conferma una serie tv ambientata a Waco, in Texas, un tempo nota solo per il massacro degli adepti di una setta religiosa che coinvolse agenti dell’FBI. Oggi invece è famosa per la serie tv Case su misura, comprate a 250 mila dollari e ristrutturate con 35 mila. Non tanto per l’architettura e l’arredamento, ma per i protagonisti Chip e Johanna che ne hanno ricavato notorietà e un modello di business che ha cambiato il volto della città.

Sono marito e moglie. Chip il classico texano biondo e chiaro, bravissimo nei lavori manuali, e Johanna, la creativa, di origini asiatiche. Insieme hanno creato un impero basato su spunti ben poco “country”, come il ristorante che serve piatti vegani e fusion di culture alimentari poco tradizionali. E funziona, anche perché loro sono telegenici e le loro case ristrutturate e arredate crescono di valore proprio come i quartieri coinvolti, attraendo curiosi e turisti. E questo ci racconta molto del mercato immobiliare statunitense, che non è tutto New York, anzi: a parte la California le case costano meno che in Italia, e in Texas meno che a Verona. Molte sono fatte in legno: e a noi sembra assurdo, perché pensiamo agli uragani, che però sono annunciati in anticipo. Ma il legno è più economico da costruire e ristrutturare. E poi gli americani sono molto dinamici: nell’arco della vita traslocano dieci o dodici volte. Se serve la cambiano per una più grande, quando i bambini crescono vanno in una più piccola. Anche questa è America che cambia: il Texas è storicamente repubblicano, conservatore e bianco, ma da vent’anni ci vengono anche nuovi abitanti, più democratici e meno bianchi, dall’Europa, da altri Stati americani. Un’America nuova e difficile da catalogare.

“Però non possiamo capire gli americani senza parlare del loro rapporto con le armi. E qui anche noi rischiamo di cadere nei luoghi comuni. Diciamo: sono sempre lì a spararsi. Perché è davvero così. Hanno una passione per le armi, le venerano e le usano. Ecco qualche dato. Un terzo delle famiglie possiede un’arma da fuoco. Certo, vuol dire che i due terzi non ne hanno, ma il 30 per cento è una minoranza bella grande. Inoltre in un Paese di 350 milioni di persone, di armi ce ne sono 400 milioni: più grilletti che gente, soprattutto se pensi che la metà delle armi è in mano a un piccolissimo gruppo, il 2 per cento degli americani. Ovvio che così tante armi generano enormi conseguenze. Basta pensare che New York e a Londra ci sono più o meno le stesse rapine, solo che a New York la possibilità di essere uccisi è molto più alta. Perché i rapinatori sono tutti armati, anche se noi sentiamo parlare di armi quando c’è una strage, che colpisce di più l’opinione pubblica. Ma la prima causa di morte per armi da fuoco non sono le stragi ma i suicidi: eh, chiunque stia male trova facilmente un’arma. La seconda causa invece sono i delitti tra persone che si conoscono. Nella coppia il più classico è il marito che uccide la moglie, o il vicino di casa, i parenti, il collega. Tensioni che esistono in ogni società, ma se come ingrediente ci aggiungi un’arma, va a finire male”.

“I dati sono espliciti: gli americani hanno un tasso di omicidi paragonabile a quello dei Paesi in guerra, non a un Paese civile. Ed è un problema tecnicamente irrisolvibile perché se anche da domani, eliminando tutti gli ostacoli politici, mettessimo le armi fuori legge e chi le possiede viola la legge, come fai a togliere l’arma a chi non vuole dartela? Come fai? Quanti poliziotti ti servono? Quanti verranno uccisi? No, non si può fare. Devi aspettare che col passare delle generazioni ci sia un cambiamento, prima di tutto culturale, nel rapporto tra gli americani e le loro armi. Guardiamoci in faccia: se noi fossimo nati lì e in quella cultura, avremo un rapporto con le armi simili al loro. Non sono geneticamente diversi da noi. Si diventa americani anche perché nascendoci sviluppi una dimestichezza non solo con le armi ma anche con la violenza, un ingrediente diffuso e presente nella società americana molto più che dalle nostre parti, qualunque cosa si possa pensare in Italia”.

Noi siamo 59 milioni e ogni anno ci sono 300 omicidi, dato in calo da decenni, a parte quello delle donne uccise. Prendiamo invece Detroit, 600 mila abitanti che ogni anno ha circa 300 omicidi per armi da fuoco: una proporzione pazzesca. Capita normalmente che ogni giorno in una città media vengano uccise cinque-sei persone. Pensate se succedesse a Verona, tutti i giorni cinque-sei morti ammazzati: una roba gravissima, arriva qui il ministro dell’Interno e scioglie il Comune. Ma gli americani sono abituati, ed evidentemente hanno sviluppato una sorta di assuefazione a questa costante presenza della violenza”.

“Infatti quando loro vengono da noi trovano incomprensibile il nostro sconcerto per le armi. In compenso restano sorpresi e scandalizzati da quante persone, in Italia e in tutta Europa, fumino le sigarette. Sono dialoghi surreali. Mi dicono: non lo sapete che di fumo si muore? Del resto se andate in America è difficile, soprattutto nelle città, vedere qualcuno che fuma: giovani quasi nessuno, magari piuttosto marijuana. Lo stigma è fortissimo nei confronti del fumo, se ti accendi una sigaretta davanti a un americano ti guarda come se stessi bevendo dell’ammoniaca. Non farlo, è veleno, dicono, ci sono un sacco di persone che muoiono ogni anno per il fumo. Provo a spiegare: sì, ok amico, allora perché sulle armi non ci capiamo? È interessante vedere come ognuno abbia un punto cieco nel proprio mondo. Io non voglio paragonare armi e sigarette, perché cambia il livello di pericolo, eppure colpisce che per noi una cosa normale sconvolga loro, e viceversa. Allora: parliamo un po’ della società”.

La demografia come macchina del cambiamento, con rapporti tra maggioranza e minoranze che confermano come gli statunitensi siano 350 milioni di individui: tutto e il suo contrario. E sono diversissimi. Hanno le università migliori del mondo ma a volte ci colpiscono per la loro ignoranza: se volete dipingerli come geni raffinati, ne troverete a bizzeffe. Uguale se li cercate solo tonti e trogloditi. Vale per la politica, il colore della pelle, le lingue. Conservatori del Sud come Alabama o Mississippi, bianchi al 96% come Connecticut, Massachusetts, New Hampshire, Delaware. In altri posti si parla lo spagnolo prima dell’inglese, però in certe parti della Georgia sono afroamericani, tutti. Ma nel quadro generale sono sempre meno bianchi per la maggiore natalità di alcuni gruppi etnici e gli immigrati, che aumentano nonostante la lotta agli irregolari. In tante città le minoranze messe insieme fanno maggioranza, come accade già tra gli under 18. Un cambiamento che è anche culturale, politico ed economico. Non piace a tutti, e il risentimento è per la percezione che il paese non sia più quello di una volta: Make America Great Again nasce anche da qui. Quindi c’è chi sogna l’America di 30 o 40 anni fa, quando i bianchi erano di più e di conseguenza comandavano saldamente.

Come popolo gli americani sono nati da zero, da frammenti di altre Paesi: italiani, spagnoli, olandesi, tedeschi. Un esperimento unico di una società eterogenea fatta di tante identità e lingue diverse, che si è formato quando nel mondo si imponeva il capitalismo, che qui ha trovato campo libero. Quindi una società composita e un modello economico vincente si sono sommati, dividendo la società non in base a quanto guadagni o che lavoro fai, operai e padroni, ma sull’identità personale. Se italiano o polacco? Tedesco o olandese? Bianco o nero? E oggi: sono maschio, femmina, gay? L’infinita discussione su cosa è giusto o no, su come confrontarsi con le identità, finisce col rendere più complicata anche la politica. Una cosa è discutere la riforma del lavoro cercando un compromesso, o le tasse e le regole. Ma se il compromesso dev’essere trovato sulle varie identità, sui tuoi diritti di essere umano, diventa molto più difficile. Provate a dire: “Siccome tu sei gay otterrai il 70% dei diritti”.

È questa identità infiamma tutto il dibattito, da quello politico a quello che mangi e che bevi. Già, perché si valuta un prodotto e il suo brand anche in base ai valori che comunica e alla coerenza delle azioni rispetto a quei valori. Che non perdonano, dimostra l’episodio della Bud Light: una birra di grandissimo successo, la più venduta negli Stati Uniti. Una birra facile, di quelli che i puristi dicono ah, che schifo. Più popolare che buona, andava forte in provincia ma non nelle città: e gli americani di sinistra la usavano per prendere in giro i conservatori di campagna. Però in quel mondo non aveva rivali: sponsor del football, delle corse Nascar, amata da quel mercato. Ma poi, visto che gli americani stanno cambiando e le vendite ne soffrono premiando vino, analcolici o superalcolici, l’azienda vuole rinnovare e svecchiare il prodotto. Ingaggiano una influencer, che è una donna trans, per rivolgersi a pubblici giovani e moderni. Niente di provocatorio, ma il cliente tipo si vede tradito nei valori: “È la “mia” azienda, non una dei fighetti di sinistra!” Dai boicottaggi ai supermercati vuoti è un tracollo: cala a tredicesima birra per vendita, addirittura scontata, l’immagine distrutta. Non per chi la promuove, ma per aver tradito l’identità del brand. Cambiare si può, però i clienti li devi preparare. Attenzione quindi a parlare di identità: nessun tema fa arrabbiare gli americani così, altro che politica, economia o immigrazione... Ma il futuro è ancora tutto da scrivere.

“Ad esempio tra poco più di quattro mesi ci saranno le elezioni, col presidente in carica che viene descritto in grande difficoltà per l’età avanzata, nonostante l’economia che corre. Ma dall’altra parte clamorosamente c’è l’ex presidente, ricandidato nonostante una condanna. Quindi cosa sta succedendo? Chi sono gli elettori di Biden e di Trump? Perché ci ritroviamo con così tanti dubbi e due candidati sugli 80 anni in un Paese alla velocità della luce?”

“La questione dell’età non è uno scherzo: il presidente deve fare due lavori diversi, il primo quando non ha le telecamere puntate addosso, il secondo in pubblico. Dietro le quinte fa un lavoro di trattative e negoziati, scrive le leggi, trova l’idea per farle passare, cerca accordi con quell’associazione o quel sindacato. La politica è un lavoro di relazioni, di conversazioni, di visione e idee. Biden nei suoi quattro anni ha fatto tante cose che possono essere piaciute o meno, ma ha governato, varato un sacco di leggi, guidato la politica estera, dall’Ucraina ai cinesi, dalla NATO all’Europa: Biden non è stato un presidente assente. Impalpabile, ma con una rotta segnata. E chi lo accusa di aver sbagliato non può usare argomenti politici”.

“Solo che c’è un secondo lavoro, quello di rappresentanza. Il presidente deve incarnare lo spirito e l’identità del Paese, deve mostrare forza ed energia, avere carisma. Biden queste qualità non le ha mai avute, figuriamoci ora che pare più anziano di quanto sia. Risulta fragile e rigido, gli occhi sottili, la voce flebile. Insomma non sembra mai presidenziale abbastanza. Perché lo hanno ricandidato? E aggiungo, e perché ancora Trump? In America i partiti fanno le primarie: i cittadini scelgono, poi il partito conferma il candidato, anche se è il presidente. Che però di solito non viene sfidato, perché nessuno avrebbe speranze di surclassarlo e chi ci provasse resterebbe nella memoria come quello che è andato contro il presidente e forse lo ha indebolito. Così i quaranta-cinquantenni dem che ambiscono alla Casa Bianca hanno fatto i conti: se perdo finisco male, e se invece vinco le primarie avrò contro un pezzo del partito che voleva Biden e dovrò comunque affrontare Trump. Ma se aspetto quattro anni, nella sfida della nuova generazione sarà tutto più semplice”.

“Nel caso di Trump alle primarie lo hanno sfidato in molti, anche alcuni governatori. E lui li ha stracciati. Quindi è stato ricandidato sia dalla base rep che dai veri militanti anche fuori dal partito. E questo è il suo punto di forza: vogliono Trump, hanno una passione per lui, un amore, quasi un culto delle personalità. Qualunque cosa dica o faccia, per quanto sia sgradevole e considerato un potenziale golpista, lo metteranno sempre al primo posto. Così, per tirare le somme, entrambi hanno punti deboli. Da un lato Biden anziano e appannato ma finora in grado di governare e senza sfidanti credibili. Certo, adesso altri quattro anni possono fare la differenza. Dall’altra uno inaffidabile, ingestibile, che può portare l’America a isolarsi dal mondo e mettere a dura prova lo stesso tessuto costituzionale e le istituzioni che reggono la nazione. Entrambi chiedono fiducia per governare fino a 85 e 82 anni. Non è una scelta facile, oppure per altri versi lo è: dipende dai punti di vista degli elettori”.

“Intanto sarà un nuovo secolo americano: lo dicono i dati. Gli Stati Uniti attraversano dal dopo pandemia il maggior successo economico della loro storia, senza paragone neanche con il New Deal. Il PIL cresce dal 3 al 5%, la disoccupazione è al minimo storico da 50 o 60 anni e di questo beneficiano soprattutto le persone che ne avevano più bisogno. Il tasso di povertà tra gli afroamericani e al minimo. Non ci sono mai state così tante donne e mamme che lavorano o persone con disabilità. Il mercato del lavoro è così forte che gli stipendi sono cresciuti molto più dell’inflazione. Non solo i dirigenti a oltre 200 mila dollari l’anno, ma gli insegnanti e i corrieri da 80 mila in su. È una società ricca, e lo si deve ad alcune scelte controintuitive. Già con Trump e poi con Biden gli Stati Uniti hanno investito nell’economia (in Europa siamo il doppio e gli investimenti sono stati un decimo): 7000 miliardi spesi per il Covid, l’emergenza climatica, l’inflazione, le infrastrutture. Soldi destinati a riorientare l’intera economia americana e prepararla alla rivalità con la Cina. Invece di tagliare le tasse e la spesa, pur di investire hanno gonfiato il debito pubblico. E i risultati sono tangibili”.

“Non dico che siano perfetti, che domineranno il futuro o che non faranno guai. Numeri alla mano però il declino è finito. Secondo le ipotesi la Cina avrebbe sorpassato gli Stati Uniti, il punto era quando: ecco, almeno per un po’ questo non succederà. La Cina è uscita male dal Covid, hanno una disoccupazione così alta che non ne parlano più, il sistema immobiliare è una bolla e sono diventati vecchi prima di diventare ricchi. E gli storici sono unanimi: dopo il Novecento, in cui pure c’erano altre superpotenze, sarà ancora così. Quindi non dico che non avranno rivali o che saranno un modello da imitare: ma saranno gli USA a dare le carte, a prescindere da chi vincerà le elezioni, anche se qualcosa cambierà. Finché il mondo sarà retto da un sistema capitalistico, loro resteranno i migliori a giocare con queste regole”.