Elisa Palazzi La Terra è in pericolo e l’asteroide siamo noi umani. È un problema solo (i combustibili fossili) con tante soluzioni
Elisa Palazzi La Terra è in pericolo e l’asteroide siamo noi umani. È un problema solo (i combustibili fossili) con tante soluzioni
Gli eventi estremi colpiscono e allarmano la popolazione, ma dopo l’uragano torna il sole. Anche troppo, così scatena siccità, malattie, carestie, migrazioni. C’è chi sostiene che l’alternanza del clima c’è sempre stata, ma i dati oggi ci confermano che da quando usiamo carbone, gas e petrolio per soddisfare un enorme fabbisogno di energia la situazione peggiora sempre più in fretta e il pianeta non ce la fa più a liberarsene, accumulando CO2 in atmosfera. È nato anche un inedito disturbo psicologico chiamato eco-ansia, perché la Terra non sembra più una casa accogliente. Possiamo fare qualcosa per rallentare e poi fermare la spirale dell’autodistruzione? Sì, ci sono promettenti alternative e si sta facendo molto: non abbastanza, quindi bisogna insistere. Anche con tanta buona informazione, persuadendo i clima-piattisti, parlando ai giovani nella loro lingua. La ricetta? Fermare i combustibili fossili, prima di diventarlo noi.
Vi ricordate dopo quella pubblicità in quanti hanno cominciato a invocare l’asteroide anche per i fastidi più trascurabili? Ora dovremmo chiamarcelo addosso da soli, perché siamo noi l’asteroide che minaccia l’umanità, altro che i dinosauri. Con la consueta leggerezza, anche sul tema di straordinaria importanza dell’emergenza climatica, è scattata la “puntata” di Open - Il Festival della Cultura d’Impresa con Elisa Palazzi,fisica, climatologa, straordinaria divulgatrice, che ha dialogato con Francesco Masini in Vecomp Academy tenendo fino alla fine il pubblico in eco-ansia (poi vi spiego). Il lieto fine per adesso non c’è, ma è giusto dire che, chi più chi meno, ci si sta lavorando. Nel frattempo bisogna “Alzare lo sguardo”.
Iniziamo col fare chiarezza sui termini: la climatologia non è la meteorologia. Quest’ultima infatti è temporanea, variabile e prevede che tempo aspettarsi, mentre il clima è l’effetto “statistico” di che tempo fa visto per almeno 30 anni, la media tra gli estremi e la cosiddetta normalità. Per gli esseri umani il clima è il carattere, che rimane stabile nel tempo, contro il meteo che è l’umore e cambia spesso. Il meteo è la foto e ferma l’istante, il clima è il film visto dopo una lunga analisi. Infine: il meteo descrive i cambiamenti dell’atmosfera, ma nel clima ci sono tutte le altre -sfere (idrosfera, biosfera e così via) che si influenzano a vicenda.
Che il clima sta cambiando lo capiamo da molte variabili. Come il riscaldamento globale, che misura le variazioni. Il 2023 è piazzato al primo posto tra gli anni più caldi, con un aumento medio di +1,5 gradi da metà Ottocento, inizio della rivoluzione industriale. L’ampiezza del cambiamento dimostra che la situazione è davvero grave: i dieci anni più caldi in tutti questi 170 sono stati gli ultimi, con record ripetutamente battuti in breve tempo, dimostrando una tendenza a crescere nel lungo termine. Si potrà anche dire: vabbè, fa un po’ più di caldo... ma le conseguenze sono tante, e non solo sull’ambiente. L’accelerazione è più evidente a partire dagli anni Ottanta, con accelerazioni che impattano ovunque, dalla salute al cibo disponibile, dall’economia alle migrazioni, alla carenza d’acqua potabile.
Cambiamenti tutt’altro che trascurabili: proviamo a elencarli. Cresce il livello dei mari, cala il volume dei ghiacciai (la Marmolada si ritira da 30-40 anni), sale l’inquinamento di acqua e terreno, sempre più gente migra perché senza risorse naturali, piove e nevica meno, il permafrost si scioglie, la biodiversità svanisce (specie di uccelli -70% e di pesci -83%). Ma è quello del ghiacciaio l’esempio più diretto ed evidente. Comincia a morire prima di sparire, quando non si rigenera più. Non si muove perché in alto la neve non si accumula, la massa di ghiaccio pesa meno e non scende più verso la zona di fusione. Fenomeni che si sommano e si aggravano reciprocamente: da un lato sono sempre accaduti nella storia della Terra, ma è la rapidità delle variazioni che impedisce al pianeta e agli animali di adattarsi in tempo.
Si verificano più eventi estremi: uragani a latitudini e in periodi insoliti, inondazioni, siccità che generano fame, malattie carestie e spopolamento. Bene che se ne parli, un segno che la consapevolezza, seppure lentamente, comincia a farsi strada. Per quanto estremi, in realtà questi eventi ci sono sempre stati: ma non così intensi né così concentrati e duraturi anche in territori non considerati fragili. Con quali conseguenze? L’agricoltura ad esempio è tra i settori più colpiti, soprattutto per la carenza d’acqua: ma non va nascosto che è anche tra le attività umane più corresponsabili (insieme agli allevamenti) di questi effetti dannosi. Ecco perché è necessario cambiare sia il percorso che il nostro rapporto con l’ambiente.
Dal clima che continua a peggiorare possiamo trarre statistiche utili a indicarci le tendenze. Ad esempio se non nevica possiamo concludere con certezza che avremo più siccità, perché c’è un filo diretto tra minori precipitazioni in montagna e meno acqua disponibile: non a caso l’acqua viene definita “oro blu”, in quanto sempre più rara e preziosa. Poca neve vuol dire che d’inverno il terreno gelerà di più, rendendo difficile la vita di piante e animali. Se la sprechiamo non vuol dire che un giorno l’acqua finirà: rimarrà sulla Terra dentro il ciclo idrico, ma è chiaro che una volta in mare utilizzarla sarà sempre più difficile e costoso.
Il peggioramento riguarda ovviamente anche la nostra salute: temiamo le polveri sottili e gli inquinanti, le cui soglie però vengono stabilite e verificate per legge. Ma ci sono altri danni collaterali: si muore nelle alluvioni, di malattie portate dalle zanzare, di caldo… e si vive comunque malissimo. Questo stress si chiama eco-ansia e colpisce soprattutto i più giovani, che capiscono benissimo che la Terra, la nostra casa comune, potrebbe non essere più in grado di ospitarci. Quindi prima che la situazione ci sfugga di mano serve una soluzione.
Di soluzioni al problema ce ne sarebbero molte, mentre la causa è una sola e la conosciamo benissimo: ma questo non rende più facile affrontarla. La base dell’emergenza climatica è il gas a effetto serra in atmosfera (soprattutto ma non solo CO2, anidride carbonica). Ci sono già tecnologie in rapido sviluppo che possono aiutarci a ridurla prima ed eliminarla poi. Ma mettiamo in chiaro che l’effetto serra ha anche un effetto vita, altrimenti nei quasi 5 miliardi di anni dall’origine della Terra a oggi non ci saremmo evoluti. Purtroppo l’equilibrio dei gas che ha retto fino al 1860 è saltato. E perché? Uno, siamo troppi; due, consumiamo troppo carbone, petrolio e gas. La Terra fa metà del lavoro, con la fotosintesi o immagazzinando la CO2: ma il resto si accumula, e alcuni gas svaniscono solo dopo decine o centinaia di anni.
Dobbiamo accettare che chiudere il rubinetto di queste risorse fossili oggi è virtualmente impossibile, ma possiamo - dobbiamo - cominciare a ridurne l’utilizzo. Alternative, si diceva, ce ne sono e anche abbastanza efficaci. Le rinnovabili possono fare molto e coprono già una buona percentuale del fabbisogno energetico. Ma bisogna fare di più, anche perché se pure qualche “clima-piattista” (imitatore di chi crede che la Terra sia una pizza) insiste a negare l’evidenza, continuiamo a riversare nell’atmosfera un eccesso di gas clima-alteranti. Se nel nucleare intanto si studiano soluzioni per migliorare performance e sicurezza degli impianti (e per gli ottimisti ci vorranno almeno trent’anni), c’è chi va all’indietro come i gamberi e i tedeschi e torna al carbone. L’obiettivo di fondo resta azzerare il consumo dei fossili.
Per le organizzazioni internazionali la soglia di incremento delle temperature medie è +1,5 gradi. Tanto, poco? Diciamo che il giorno dopo aver oltrepassato quella soglia non inizierà l’estinzione: possiamo reggere anche a un livello di +2 gradi. Non si ancora bene che cosa ci succederà, ma vivremo comunque peggio di adesso. Oltretutto questa battaglia per il clima non viene combattuta ovunque con lo stesso impegno e la consapevolezza necessaria: ma ha senso fare la classifica dei buoni e dei cattivi mettendo in cima alla lista la Cina, l’India e gli Stati Uniti e considerando l’Europa più virtuosa? In realtà siamo davvero tra chi (per abitanti e per densità di popolazione) fa del proprio meglio, o almeno ci prova. Ma il prezzo globale del non fare nulla per la sostenibilità e lasciar andare il clima alla malora sarebbe molto più alto di quello da sostenere subito e in futuro per correre ai ripari.
Va comunque detto, anche per non abbatterci troppo, che oggi siamo più allineati ai criteri di sostenibilità di quanto non lo fossimo anche solo vent’anni fa. Segno che la comprensione dei rischi e del bisogno di mitigarli comincia a fare breccia, almeno tra le nuove generazioni che in futuro dovranno sostenere il peso e gli effetti della lotta per far sopravvivere la nostra specie. La situazione in Europa: il contributo delle rinnovabili al fabbisogno di energia si valuta in circa un terzo, mentre per i due terzi si ricorre ancora ai combustibili fossili.
E se il fotovoltaico o le turbine eoliche non possono sostenere tutto il carico necessario, ben vengano le idee (ne nascono di continuo) per impianti di nuova concezione che sfruttino il sole, i passi dei pedoni, le onde, le maree, l’idroelettrico... Varranno anche solo uno zerovirgola di quel che ci serve? La somma di tante piccole iniziative, anche locali e non per forza dei mega impianti, potrebbe fare la differenza e generare il totale che ci consentirà di archiviare la stagione del fossile. Almeno per evitare che nel futuro i fossili siano gli umani.
E gli scienziati cosa possono fare? A parte studiare, inventare e prevedere cosa succederà non possono più fare solo ricerca, ma metterci le mani e la faccia. Devono fare divulgazione, parlare a persone ansiose e confuse, andare dalle scuole ai teatri, in tv e sui social come fa Elisa Palazzi. Possono spiegare pericoli e alternative, sfruttare i nuovi linguaggi e non fare lezione ma promuovere la conoscenza di quanto le azioni quotidiane di ciascuno possano contribuire a migliorare (o peggiorare) la situazione. Comunicare, non fare del terrorismo. Anche combattendo il riflesso pavloviano dei media che affrontano l’emergenza clima solo quando ci sono eventi estremi e catastrofi. La paura non stimola l’azione, la blocca. C’è un’alternativa: cerchiamo e promuoviamo gli elementi positivi, facciamo scelte diverse.