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Elisa Palazzi
Emergenza clima, il pianeta è rovente. Però tutti possiamo agire per raffreddarlo

Elisa Palazzi <br> Emergenza clima, il pianeta è rovente. Però tutti possiamo agire per raffreddarlo

Elisa Palazzi
Emergenza clima, il pianeta è rovente. Però tutti possiamo agire per raffreddarlo

L’inverno non s’è visto, ma tra un po’ è estate di nuovo: altro che “non ci sono più le mezze stagioni”. Siamo sicuri che non ci sia qualcosa di storto nell’aria? I numeri dicono che in un secolo la Terra si è scaldata di 1,2 gradi, e non è una bella notizia, proprio mentre l’atmosfera sembra impazzita, manca l’acqua e i mari alzano la cresta. Situazione critica ma non tutti ci credono e pochi hanno intenzione di correre ai ripari. Forse però c’è qualche barlume di innovazione: secondo la climatologa del CNR e docente dell’Università di Torino i segnali migliori arrivano dai giovani, ma anche dalle scelte dell’Europa e della Cop 27. E gli scienziati devono comunicare meglio per divulgare pericoli e opportunità.

Testo di Stefano Tenedini

Fa sempre più caldo e piove col contagocce, la neve è un ricordo e i ghiaccioli si squagliano come ghiacciai. Le specie animali e vegetali restano solo sui libri e il mare si mangia coste e perfino campi. C’è qualcuno che seriamente pensa che il clima non sia un’emergenza? Sì, evidentemente, visto che se ne discute sempre di più ma di agire non se ne parla. Ci sono solo i ragazzi in piazza, ma i governi – tutti – fingono di vivere su Marte. Che si fa? Perché qualcosa per non liquefarci dovremo pur fare. Francesco Masini, dal suo sgabello di #Open 2022-23 in Vecomp Academy, ha fatto la scelta giusta, chiamare per spiegare la situazione una che sa farsi capire, emozionare e convincere: la climatologa Elisa Palazzi, ricercatrice dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima (ISAC) del CNR e professoressa associata di Fisica del Clima all’Università di Torino. E una divulgatrice di grandissimo valore.

La prima curiosità è di rito: che cosa fa una climatologa? “Nell’ottica delle scienze naturali io mi dedico a studiare l’atmosfera, la biosfera, i ghiacci e soprattutto le montagne, perché in alta quota trovo tutti gli elementi per misurare quanto incide il cambiamento climatico. Le montagne sono le sentinelle dello stato di salute dell’ambiente, e l’effetto si nota prima e con maggiore ampiezza. Ma oggi non è il mio unico terreno di azione, perché la crisi sta lasciando segni ovunque, nella società come nell’economia, nei diritti, nella giustizia, oltre che naturalmente sulla popolazione di tutto il pianeta, in qualsiasi area del mondo”.

Che il clima stia cambiando è sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vederlo: ma in che cosa e come possiamo misurarlo? Il come e il quanto lo dimostrano i dati scientifici, che portano le prove di una trasformazione che avviene senza limiti territoriali e molto più in fretta che nel passato. La misura della crisi, tutt’altro che virtuale, è quindi proprio nella globalità e rapidità del cambiamento. Elisa Palazzi lo ha spiegato in tre immagini semplici e inquietanti. La prima sembra un codice a barre colorato, e infatti etichetta l’aumento della temperatura sulla Terra: le warming stripes ideate da Ed Hawkins, tante strisce colorate di blu e azzurro, poi arancione tenue, via via più scuro e rosso fino al marrone nerastro. In un secolo o poco più siamo passati dal fresco al tiepido e ora siamo sulla graticola.

La seconda immagine mostra uno stormo sempre più rado di uccelli che volano sopra una foresta di strisce che si stingono dal verde al giallo fino a un grigio che sa di agonia: indica la perdita di biodiversità, cioè il numero e la varietà di specie che stanno scomparendo dal pianeta. Ne perdiamo così tante che è perfino impossibile calcolarle, ma si stima che siano oltre 20 mila l’anno, quasi esclusivamente a causa delle attività dell’uomo o dell’assenza di interventi. Un danno incalcolabile, perché la ricchezza dei biosistemi è un indice di salute. L’ultima immagine conferma l’innalzamento del livello di mari e oceani – alcune decine di centimetri in meno di trent’anni – che causa erosioni estese e a tratti catastrofiche. E non parliamo di aree remote che potremmo cinicamente ignorare, ma dell’Italia stessa. Il 2022 ci ha sbattuto in faccia non soltanto il crollo del ghiacciaio della Marmolada, simbolo della nostra crisi climatica che ha causato numerosi morti e ha sfigurato la montagna, ma anche alluvioni, un’estate bollente e infinita con il suo corredo di siccità e di nubifragi, grandinate e trombe d’aria, l’agricoltura in ginocchio e gente in spiaggia nel mese di ottobre.

Eppure, incredibilmente, tutti questi segnali non ci convincono a passare all’azione: perché se anche per il pianeta il cambiamento è accelerato, a noi sembra così lento che non ce ne accorgiamo, nonostante conseguenze disastrose e misurabili. E non è solo l’ambiente: le ripercussioni riguardano tutti i contesti umani, ovunque. Ecco perché la nostra percezione va cambiata anche in base a come definiamo la situazione: lo chiamavamo “riscaldamento globale”, poi “cambiamento climatico” e oggi siamo pronti a passare da “crisi climatica” a “emergenza climatica”. Spiace constatare che una parte di studiosi / negazionisti ancora si rifiutino di ammettere che la trasformazione è reale: i dati non mentono, loro invece sì. Così facendo però danno fiato a milioni di complottisti che rifiutano l’evidenza di una crisi antropica: il cambiamento è collegato alle attività dell’uomo, che rilascia nell’atmosfera sostanze climalteranti che si aggiungono ai cambiamenti naturali del clima.

Adesso non possiamo più far finta di non sapere da dove vengono questo caldo e la siccità, perché non piove più e in montagna non nevica. Il Mediterraneo, e quindi l’Italia, sono un punto caldo del sistema atmosferico globale, che si scalda più in fretta che altrove: capita qui perché siamo una zona sovrappopolata, industrializzata e stressata. Da noi piove meno perché anche la circolazione atmosferica sta cambiando, per l’aumento medio di 1,2 gradi in un secolo, e arriva aria più calda e meno umida. Ma il pianeta somiglia sempre più a una fornace, e crea come contrappeso le condizioni per lo sviluppo di perturbazioni devastanti senza colmare le falde acquifere, mentre i fiumi asciutti non possono bloccare l’intrusione nei terreni coltivati di acqua marina salata, che distrugge i raccolti e accentua le carestie.

In molte zone del mondo per strada circoleranno barche invece di auto. Dovremo andare a vivere in montagna? Elisa Palazzi spiega che neanche i modelli matematici lo possono dire, ma le pianure sono chiaramente sottoposte a un elevato stress da calore. Anche se vivere in quota e popolare le montagne sarebbe ottimo per l’ambiente e la fauna. Eppure decine di migliaia di morti l’anno non convincono ancora tutti che la vera causa è un clima che sta a noi curare e guarire. Si può fare? Sì. Negli anni Ottanta i CFC, gas usati come refrigeranti e solventi, stavano distruggendo lo strato di ozono che ci ripara dai raggi ultravioletti. Fu un patto internazionale ad affrontare le sostanze dannose: trovato il modo, ci sono voluti comunque oltre 36 anni per ridurre il danno e finalmente (quasi) chiudere il buco letale.

Tutto questo viene chiamato adattamento: se le condizioni climatiche cambiano, noi ce ne dobbiamo fare una ragione. Ma non basta. Dobbiamo studiare e definire iniziative tali da portare a un minore impatto e a un migliore uso delle risorse, soprattutto energetiche: la tecnologia e le fonti rinnovabili ci daranno una mano. Ma davvero abbiamo noi la massima responsabilità per questa situazione? Anche noi facciamo danni o è colpa delle generazioni precedenti? E a questa domanda Elisa Palazzi finalmente si illumina: “Da un certo punto di vista va già meglio, anche se il cambio di mentalità e di visione è ancora recente”, spiega. “Non solo grazie al lavoro degli scienziati, ma anche per merito dei giovani che portano il clima in piazza: è un problema per più generazioni, e saranno i ragazzi a subirne gli effetti, oggi e in futuro. Ora se ne parla molto di più, anche se ci manca la spinta politica, pratica ed economica. Da docente mi piace l’entusiasmo dei giovani, le richieste, la fame di azioni e di informazioni: e portano con sé anche genitori, amici, insegnanti e scienziati stessi.”

Tra l’altro solo oggi si comincia a parlare di giustizia climatica: chi ha fatto più danni dovrà pagare di più per invertire la rotta. È molto positivo che all’ultima conferenza sul clima, la Cop 27 in Egitto, sia stato creato il fondo alimentato dai Paesi ricchi per aiutare quelli più poveri colpiti dalla crisi climatica. Ma in attesa delle decisioni internazionali cosa possiamo fare come individui? Ci sono ottime scelte personali che possono contribuire, come ridurre i consumi del riscaldamento e per i trasporti, o comunque utilizzando meno le fonti fossili. Questo è il vero punto dolente: enormi interessi economici frenano l’abbandono proprio dei combustibili più pericolosi per il clima. Bisogna tracciare e seguire una via che aumenti l’incidenza delle fonti più pulite, tra le quali non possiamo escludere neanche il nucleare.

È possibile arrivarci con un accordo tra gli Stati invece di imporre il cambiamento? Per Elisa Palazzi “sarebbe meglio prendere impegni comuni, ma con periodiche verifiche: l’Europa è leader per le scelte sui tempi e la misura della riduzione del ricorso al fossile, e si tratta di parametri molto stringenti. La strada è giusta, potremo adattare le misure ai singoli Paesi purché si mantenga un percorso di cambiamento globale. Invece trovo sbagliato chiederci a cosa siamo disposti a rinunciare per salvare il pianeta: è un approccio dannoso, perché si sbaglia ottica e si allontana il cambiamento. Ma se tutti modificassero anche solo un po’ lo stile di vita ne avremmo un ritorno positivo, vantaggioso anche per salute e benessere”.

In queste settimane si sono alzati i toni sulla messa al bando dei motori termici in favore di quelli elettrici, ma per Palazzi è un falso problema: non si aumentano le vetture a batteria, si devono ridurre in generale le auto in circolazione. E poi non dobbiamo più nasconderci dietro la domanda “e gli altri cosa stanno facendo?”: iniziamo noi, e capiremo se e quanto staremo meglio, senza dover aspettare “gli altri”. È lo stesso col Covid, la politica, le tasse, la guerra: anche il clima deve fare i conti con l’emergenza comunicazione. È vero che con le parole gli scienziati non sono mai stati tanto efficaci: affidavano ai numeri e ai grafici un messaggio che non arrivava al pubblico o non trasmetteva l’urgenza del tema. Parlare di scenari lontani un secolo, di emergenze che riguarderanno le prossime generazioni è stato un errore che ha spinto molti a sottovalutare il rischio. Ma le cose sono cambiate, anche grazie ad altri strumenti di comunicazione: arte, poesia, foto, video, simboli e messaggi.

Il pensiero che deve farsi strada è che tutti dobbiamo fare qualcosa, perché non abbiamo un pianeta di riserva. Sul piano della scienza è necessario che i ricercatori siano disponibili ad aprirsi al pubblico e diventino più comprensibili, ma devono anche mantenere un rigore scientifico che si rispecchi in dati certi, per generare fiducia e non lasciare spazio ai dubbi e alle incertezze. Sotto questo profilo le cose sono cambiate in meglio e in positivo: c’è più consapevolezza e timore per un cambiamento che rischiamo di non poter più controllare. Ma c’è anche un grande bisogno di comunicare meglio lo scenario: di divulgare, appunto.

Per concludere, uno sguardo alle criticità che offuscano l’orizzonte dello sviluppo: è vero che ci sono potenziali problemi anche con l’utilizzo delle rinnovabili – il crescente bisogno di energia, materie prime difficili da reperire e con un elevato costo ambientale, come e dove smaltire i componenti usati – ma i dubbi non vanno usati come scusa per ritardare il cambiamento. Quella contro l’emergenza climatica assomiglia a una guerra non lineare, con continui cambiamenti di fronte, rapide avanzate ma anche temporanee ritirate, che si combatte sul campo ma anche sui media e nelle piazze dei social. Ad esempio noi europei, osservati e soppesati da fuori – dal resto del mondo che ci giudica – forse non sembriamo tra i popoli più sensibili. Eppure abbiamo imboccato la buona strada e, dice Elisa Palazzi, potremmo davvero fare la differenza per “rinfrescare” il futuro.