Carlo Cottarelli I conti economici: Trump li fa con i dazi, la UE con la difesa, l’Italia con deficit e denatalità
Carlo Cottarelli I conti economici: Trump li fa con i dazi, la UE con la difesa, l’Italia con deficit e denatalità
La situazione è così complessa che sull’economia delle nazioni e delle aziende incombono anche i temi di una drammatica attualità geopolitica: dai dazi che Trump minaccia un po’ ovunque a un’Europa che intende rafforzare la propria difesa e recuperare la capacità produttiva dell’industria; dalla fiacca discesa dei tassi all’inflazione sempre sullo sfondo; da un PIL italiano che ristagna agli incomprimibili costi dell’inefficienza e della burocrazia; per finire col macigno del debito pubblico, l’occupazione punita da lavori sottopagati, in cui i salari crescono da trent’anni meno della media europea. Per l’economista, politico e docente con cui si è conclusa la stagione di Open, parlare di “Quanto ci costa non occuparci di…” è stato un invito a nozze. Il suo è un pessimismo analitico, condivisibile e razionale, punteggiato di fatti e numeri e sintetizzato nel titolo del suo nuovo libro che uscirà a maggio. Che sarà “Non c’è più niente da fare”, ma solo perché potrebbe andare peggio, potrebbe piovere. O forse no, chissà.
Carlo Cottarelli avrebbe potuto essere un protagonista della politica italiana, quando nel 2018 Mattarella lo incaricò di formare un governo tecnico dopo l’infinito stallo del post- elezioni. Ma dopo qualche giorno rinunciò perché, disse, erano comparse le condizioni per dare vita a un esecutivo politico. In pratica il suo ritiro aprì la strada a Conte e Salvini per il governo gialloverde, con gli esiti che ciascuno può soppesare in base al suo punto di vista. Ma a molti italiani il suo commiato dal Quirinale con lo zainetto e il trolley ha lasciato un po’ di rimpianto e di sconforto, quasi il simbolo dell’impossibilità di cambiare l’Italia.
È tornato a fare quello che sa fare meglio, l’economista, analista e docente universitario, a parte una parentesi come senatore Pd finita per l’eccessiva distanza dalla linea Schlein. La sua carriera parla comunque per lui: ai vertici del Fondo Monetario Internazionale per 25 anni, direttore del dipartimento Affari fiscali, ha tenuto d’occhio l’Europa (quindi anche l’Italia) prima di essere chiamato da Letta a capire come ridurre e usare meglio la spesa pubblica. Ma la spending review non è mai partita: più che la politica, a boicottare tutti i tentativi di fare ordine e risparmiare è stata la burocrazia delle alte gerarchie ministeriali. Adesso è editorialista e direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica, e docente di Macroeconomia fiscale alla Bocconi.
L’argomento della serata è naturalmente quanto costa alle imprese (e ai cittadini) non occuparsi di dati economici. Cottarelli lo ha spiegato al pubblico della Vecomp Academy (sold out e platea piena) chiudendo la stagione 24|25 di Open. Temi, ricorda Francesco Masini, che dovrebbero essere strategici ma solo pochi considerano tali. Ed è per questo che Vecomp Academy lavora per farli diventare patrimonio della cultura di impresa. Ma la situazione attuale è così complessa che sull’economia impattano anche i temi di stretta attualità geopolitica: dai dazi minacciati da Trump a un’Europa che intende rafforzare la propria difesa, dall’inflazione ai tassi, dal PIL italiano che ristagna ai costi dell’inefficienza e della burocrazia, fino al macigno del debito pubblico, all’occupazione e al perché in Italia i salari crescono meno della media europea.
Partiamo dai dazi americani, che in sintesi sono una tassa sulle importazioni: se costerà di più esportare negli Stati Uniti, i produttori possono ridurre i margini e contenere così il prezzo di vendita, per “sterilizzare “i dazi. Di solito però il sovrapprezzo di queste merci importate colpisce più chi acquista. Trump spera che la tassa faccia decollare i prezzi al consumo e spinga gli americani a comprare vino californiano invece che... veneto. Inoltre Washington punta a utilizzare questi ricavi extra per far ripartire molti settori economici in sofferenza. Come finirà? Ricordiamo che i dazi sono anche degli strumenti negoziali: se ci si mette al tavolo entrambe le parti pesano pro e contro, quindi lo scontro sarà durissimo.
I dazi che saliranno di più sono, in sintesi, quelli che dovranno proteggere la manifattura americana dalla concorrenza di Pechino. Il 16% della manifattura mondiale oggi è made in USA, ma la Cina è al 32%: esattamente il doppio. I dazi devono anche rispondere alla fame di materie prime degli americani e a supportarne il futuro militare: Washington in pratica è scomparsa dalla produzione di acciaio, indispensabile per i mezzi pesanti. Si sono infatti ridotti al 4% della produzione globale, mentre la Cina arriva al 54%. È un guaio serio che in Oriente ci sia una superpotenza che fa paura anche sul piano economico: il suo PIL è del 27% superiore a quello degli USA, che quindi premono per rafforzare l’industria.
E noi dobbiamo preoccuparci dei dazi? Cottarelli dice che “possono avere sull’area euro un impatto tutto sommato limitato. Ogni aumento del 10% dei dazi può incidere per lo 0,1% sul PIL. Ma se invece di considerare la produzione globale europea si entra nel dettaglio dei settori coinvolti, per alcuni può essere una brutta botta”, conferma citando appunto il vino veneto. “L’altra conseguenza è che i dazi aggraverebbero le molte incertezze di un periodo già difficile. Se si smette di investire le famiglie non comprano, il dollaro si svaluta oltre il 2-3% già perso sull’euro, rendendo alla UE ancora più costoso esportare. E questo potrà riequilibrare il sistema economico americano che non gode di buonissima salute”.
Come risponderà la UE alla guerra dei dazi? Dovrà muoversi compatta e sta valutando le opzioni. L’Italia ha segnalato di non voler fare aumenti come fosse una rappresaglia, ma a Bruxelles la tentazione di rispondere per le rime a Trump inizia a farsi sentire. Come scenario, in ogni caso, non saranno solo gli Stati Uniti a fare i prezzi, ma l’intero mercato mondiale. Invece ogni singola impresa è libera di andare a cercarsi acquirenti altrove: lo stiamo già vedendo. Questo svantaggerà noi come Paese perché esportiamo negli USA più di quanto loro vendano da noi, quindi è possibile o probabile attendersi qualche aumento. Infine Cottarelli prevede che l’Unione Europa debba reagire, poi negoziare e vedere chi ha più potere contrattuale: ma come insieme di Paesi non potrebbe fare diversamente.
C’è poi il lungo e inquietante capitolo Russia: il comportamento minaccioso di Putin ha spaventato l’Europa, che ha deciso di riarmarsi – piano approvato ma non ancora in via di attuazione – mettendo sul piatto 800 miliardi in varie forme. Il disegno della Von der Leyen al momento è favorire i Paesi che volessero aumentare la spesa militare destinando l’1,5% del proprio PIL al settore Difesa. Per noi sarebbero oltre 40 miliardi, ma la richiesta deve venire alle singole nazioni: una volta approvata, la UE raccoglierà e garantirà queste cifre sul mercato. Fondi che dovrebbero finanziare ben 27 eserciti: difficili da coordinare, ma senz’altro più facili da preparare a fronteggiare una minaccia russa rispetto a un vero e proprio esercito europeo che sostituisca la NATO. Ma che non è all’orizzonte.
L’obiettivo è ancora abbastanza vago. Comprensibilmente i Paesi dell’Est Europa sono i più preoccupati e spenderebbero di più. L’Italia, partendo dall’1,6%, punterebbe ad arrivare al 2% già previsto dagli accordi NATO. Ma Cottarelli, sempre cauto sulle spese, si chiede “se non sia troppo, o prematuro rispetto alla situazione ancora in divenire. Perché certo, gli Stati Uniti dicono di volersi sfilare dal Patto Atlantico, però non c’è più neanche l’Unione Sovietica”, dice. Però se Putin è aggressivo da molti anni forse è proprio perché non gli è mai arrivata una risposta convinta, e la deterrenza è fondamentale e costa. Che cosa fare? “L’Europa sta già facendo molto, anche se bisogna riconoscere che c’è molta incertezza. A mio parere bisognerebbe andare per gradi e capire bene come finanziare la spesa: la UE non è in un’economia di guerra, e poi non ha ricevuto una minaccia concreta”.
Un’opinione che ha sorpreso un po’ la sala, come il giudizio “beh, non siamo in guerra, o meglio la guerra c’è: ma in fondo è in Ucraina”. Magari un giudizio da economista, che però sembra sottovalutare il peso non solo finanziario e concreto, ma anche dei valori e principi propri dell’Unione Europea. Siamo davanti a una guerra devastante che prosegue da oltre tre anni, e all’invasione di un Paese sovrano che dell’Europa si sente parte.
Il discorso è poi passato a come sta l’economia italiana. Cottarelli ha proposto un veloce ripasso degli ultimi 35 anni: fino al 1990 crescevamo come il resto d’Europa, poi la linea si è appiattita ha cominciato a scendere. Tra le cause la decrescita demografica, che però ha colpito tutto il continente. Solo che altri Paesi hanno adottato strategie per sostenere sia la crescita economica che la natalità: scelte che l’Italia non ha fatto. Così il 2000 segna da noi l’inizio della crescita zero nell’incremento del reddito. Risultato? Per la prima volta nella storia i figli sono meno ricchi dei genitori, e questo distacco dall’Europa continua ad aumentare. Poi è arrivata la crisi del Covid: l’Europa ci ha fatto da bancomat, certo, e noi lo abbiamo usato come un pozzo senza fondo, con eccessi stile 110%. Dopo la fase acuta della pandemia siamo ripartiti bene, a volte meglio dei nostri vicini, ma finiti (o sprecati) gli aiuti la crescita si è ridotta. Adesso siamo di nuovo fermi: i problemi strutturali che ci affliggono da sempre non sono stati risolti. E per la verità neanche affrontati.
Ma il problema dei problemi è senz’altro la burocrazia, un peso che opprime l’impresa e le famiglie. Tutti abbiamo esempi di una macchina pubblica lenta con la quale non si può interagire. Nel 2024 è stato calcolato che solo per adempiere agli obblighi formali, quelli che un tempo volta erano “carte bollate”, le aziende hanno speso 57 miliardi. L’industria rischia di venire sepolta dai moduli. Troppe regole, enti da soddisfare, disorganizzazione e tempi eterni della pubblica amministrazione a fronte di poca efficienza ed efficacia del lavoro svolto. “Per il personale”, dice Cottarelli, “bisognerebbe riflettere su come è scelto, assunto, formato e gestito, senza contare che senza obiettivi chiari il sistema pubblico non si rialzerà”. Insomma: manca tutto quanto servirebbe per fare passi avanti.
I governi fanno poco, anzi aggiungono norme invece di sfoltire le procedure. Bisognerebbe misurare i risultati a fronte di obiettivi precisi e mirati, premiare il merito e non distribuire incentivi a pioggia. “Ma questo non succederà mai”, sintetizza, “se prima la mentalità non cambierà a tutti i livelli, e soprattutto se la politica di chi sarà al governo in quel momento non si giocherà un enorme capitale politico con l’obiettivo di svecchiare tutto il sistema, a costo di andare inevitabilmente incontro a molte proteste”.
Un riferimento all’attualità ma anche al passato. “Se un presidente del Consiglio mettesse il suo peso a favore di un simile progetto politico, si potrebbe tentare. Sempre che abbia davvero ricevuto un mandato popolare”, precisa. “Solo così potrebbe imporre la propria agenda, andando oltre le contestazioni”. Il PIL italiano è oberato da una storica burocrazia, ma potrebbe risalire grazie alla produttività. Riforme e strumenti ci darebbero più risorse per ridurre il deficit che ci azzoppa. Qualcosa Meloni ha fatto: ne è emerso un tesoretto – risparmiato, non speso – che è servito a ridurre spread e interessi sul debito. Si può fare anche senza tempi biblici: basterebbero 15 anni, crescendo anche solo dell’1% l’anno. In Spagna e Portogallo arrivano al 2%, perché noi no? Facile: in Italia ci vuole un’eternità per finire opere pubbliche e strutturali necessarie. In questo contesto è difficile competere.
Il tema successivo è l’occupazione. Nonostante la percezione, i numeri non vanno male: senza più il reddito di cittadinanza forse molto lavoro è “emerso”. Il problema è che si lavora di più ma con una produttività ridotta, quindi impieghi di minore qualità creano poco ritorno per il sistema economico. “A volte sono lavori part-time e sottopagati, sui quali pesa l’inflazione, che fa scendere il costo del lavoro e rende le retribuzioni più basse che in passato”, dice Cottarelli. “Fino al 2019 la nostra economia cresceva poco rispetto alla media europea. Ma l’inflazione ha spostato risorse dai salari ai profitti: qualcosa sta cambiando, ma il recupero dell’equilibrio sarà molto lento”. L’Italia paga anche una bassa spesa per istruzione e formazione: per questo ci sono pochi universitari e laureati. E non è un parallelo da poco, perché alla fine la ricchezza la fanno prima di tutto le persone.
In questa situazione come va il costo del denaro in Europa? La discesa dei tassi, governata dalla Banca Centrale Europea, appare adeguata a un’inflazione poco sopra il 2%. Ora non ci possiamo lamentare, anche se qualche altra riduzione ci starebbe. Ma è evidente che se la spesa dovesse tornare a crescere anche solo per sostenere la spese del rafforzamento della difesa europea, sarà difficile continuare a pilotare i tassi verso il basso.
Cottarelli si concede poi un piccolo spot, molto apprezzato dalla platea dell’Academy, per presentare il suo nuovo libro in uscita a maggio. Si intitola “Non c’è più niente da fare”, e confessa che in copertina avrebbe voluto aggiungere “…è stato bello sognare”, “anche se in quel caso non lo avrebbe comprato nessuno”. Anticipa che analizzerà senza filtri la realtà economica del nostro Paese e risponderà agli interrogativi sulle sfide del futuro nel traballante contesto geopolitico internazionale, promettendo di non voler far perdere la speranza agli connazionali. Non sarà un libro dedicato solo all’Italia, ma conterrà capitoli anche sul clima, la politica, i mercati, le imprese e le risorse, fino alla guerra fredda Cina-Stati Uniti che forse si scalderà: “due galli nel pollaio che non si vedevano da tempo”.
C’è anche la demografia, che quando avremo raggiunto il picco di popolazione mondiale a 9 miliardi di abitanti scenderà tanto da portare potenzialmente all’estinzione della specie umana. Anche qui, per fare due conti, proprio in Cina ogni coppia – due persone – avrà in media un solo figlio. “Non serve il pallottoliere: è chiaro che la natalità sarebbe così scarsa da portare gli umani a estinguersi in 31 generazioni, meno di otto secoli. Abbiamo ancora, e non tutti, il desiderio di fare figli: però si vede che uno ci basta”, ammette.
Per completare il giro del mondo, Cottarelli torna a valutare i nodi della situazione italiana. Semplificando, è un circolo vizioso: ci sono più lavoratori che costano meno e guadagnano meno, quindi spendono sempre meno. Alcuni Paesi poi contrastano la burocrazia, hanno l’energia che costa meno, liberalizzano gli scambi e favoriscono l’avvio di nuove attività e imprese, fanno le riforme e ne beneficiano rapidamente. Quindi “non andiamo male, ma potremmo andare molto meglio. Prima però occorre sistemare il settore pubblico, al quale bisogna aggiungere anche i mali e le lentezze della giustizia. Alla politica serve coraggio, perché puntare a crescere dello zerovirgola è come restare fermi: contro la burocrazia ci vorrebbe quasi la motosega di Milei”, commenta Cottarelli a sorpresa. Applausi, sipario.