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Alice Avallone
La prateria digitale e la magia dei piccoli dati che diventano storie

Alice Avallone<br>  La prateria digitale e la magia dei piccoli dati che diventano storie

Alice Avallone
La prateria digitale e la magia dei piccoli dati che diventano storie

 Intervista di Stefano Tenedini

Un anno di lockdown ha reso difficili i contatti ma ci ha aperto spazi imprevisti sulla Rete. Qui troviamo segnali impercettibili eppure reali per interpretare la società in trasformazione, per entrare nelle case e nelle vite degli altri, vedere tendenze e tradurre questo caos apparente in persone, tensioni ed emozioni. Mentre diventiamo consapevoli di quante tracce lasciamo sul web, scopriamo che “là fuori” non ci sono degli alieni, ma siamo sempre noi, adattati a nuovi ambienti. E che la vera, grande nuova normalità adesso è chiedersi “perché”.

05/03/2021
Cosa fanno gli antropologi? Girano come Diogene per savane e periferie a cercare l’uomo, i suoi percorsi, le sue tracce, i suoi modi di essere e il suo divenire. E oggi? Anche. Solo che i sentieri dell’outback e delle banlieu bisogna ritrovarli in quel territorio evanescente eppure concretissimo che è la Rete. Soprattutto in quest’anno di clausura pandemica, perché forse i sentieri di erba e sassi ci sono preclusi, ma quelli digitali sono aperti più che mai, come una prateria o un oceano blu, e tutti da esplorare e interrogare. Bisogna mettersi scarpe buone (che oggi sono fiuto, agilità e curiosità) ma il raccolto è sempre ricco e vario. Lo sa bene Alice Avallone, una viaggiatrice che al mondo reale ha aggiunto quello immateriale: antropologa digitale, ricerca e studia i comportamenti umani con l’osservatorio BeUnsocial e coordina il College Digital Storytelling della Scuola Holden. Ha appena scritto per Hoepli “#Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale” e giovedì 11 febbraio ne parlerà (con tantissimi altri spunti) con Francesco Masini all’incontro di #Open 2020-21 in Vecomp Academy.
 
Gli small data, che sorpresa continua. Come scoprire che un tuo contatto fa pipì in doccia…
Quante tracce lasciamo in Rete, di continuo! Qualche giorno fa raccontavo di come sono a conoscenza di small data intimissimi di alcune persone che ho incrociato giusto un paio di volte; di un paio, appunto, so come fanno la pipì! Lasciamo tracce in modo consapevole, con commenti e mi piace, o meno, come le query sui motori di ricerca. Ma anche sbagliando a mandare mail! Ti racconto un aneddoto. Da sempre il mio nickname è Nastenka, un nome russo, omaggio a Le Notti Bianche di Dostoevskij: anche la mia prima mail su gmail ha questo nome. Da quindici anni ricevo ciclicamente posta da un gruppo di signore attempate che mi mandano foto di casa loro, festicciole, nipotini, cagnetti – scambiandomi per una loro amica. Ho cercato di avvertirle, ma niente: accumulo tantissime conoscenze sulla loro vita di “baby boomer” russe. Tra i loro set di tè e le serate a cucinare, sono eccezionali.

Insomma, ci facciamo gli affari degli altri anche senza volerlo. Siamo già all’etnografia 2.0?
Nah, niente 2.0! Direi invece che i territori in cui ci muoviamo sono aumentati, soprattutto grazie all’emergenza sanitaria. Camera da letto, cucina, soggiorno, ma anche le stanze su Meet, Zoom, Skype, adesso anche ClubHouse. In questi ultimi mesi sarò entrata in duecento case dei miei studenti. Della maggior parte di loro conosco le librerie, i soprammobili, le foto e i quadri appesi alle spalle. Ho visto anche parecchie code di gatti curiosi. Paradossalmente, il digitale ci ha offerto la possibilità di una relazione più intima di quel che si verifica in un luogo neutrale come un’aula di scuola. Detto questo, se te lo stai chiedendo, io alle spalle cerco di avere sempre uno sfondo neutro, un muro bianco: e a un etnografo digitale attento e sensibile anche questa scelta può dire molto del mio carattere.

Minuscoli frammenti di informazione che danno senso a ciò che osserviamo. Parliamone.
Lo racconta bene l’esperto di branding Martin Lindstrom nell’introduzione al suo libro Small Data: I piccoli indizi che svelano i grandi trend (Hoepli). Qui si tratta di andare “alla ricerca di regolarità, parallelismi, correlazione e - non da ultimo - equilibri ed esagerazioni”. Questi strani frammenti di informazione possono restituire un senso e un significato a ciò che intercettiamo per un motivo: ci obbliga a chiederci perché. Perché quel dato è così regolare e ricorrente? Perché è esagerato rispetto alla norma? O ancora, perché assomiglia così tanto a quelle altre evidenze? E tutto questo ci spinge ad andare ancora più in profondità.

Al di là della magia degli insight, l’esplorazione ci aiuta a capire o anticipare la realtà?
Nemmeno gli etnografi digitali hanno la sfera di cristallo, ma possono compiere il gesto che abbiamo imparato a fare da piccoli: immaginare. Che è il presupposto essenziale per capire cosa potrebbe esserci all’orizzonte. Chiaro che poi i ricercatori usano indicatori veri e propri per verificare se stanno guardando nella direzione giusta: quanto è rilevante un fenomeno, quanto incide l’influenza geografica, quanto conta il territorio digitale dove sta sbocciando quel tal fenomeno e la generazione che ha dato il via. Fare le previsioni non è una scienza esatta: quante volte nemmeno il meteo sul cellulare ci azzecca (e poi basterebbe guardare fuori dalla finestra per vedere se piove, altro che satellite)! Per non parlare di Paolo Fox.

Per capire i dati servono gli umanisti, dicevi un anno fa. E ora? È diverso, uguale o di più?
Lo penso ancora, eccome, sempre di più. Si fa ancora troppo poco per integrare gli umanisti nei contesti chiave. Un minuscolo passo si è fatto con Assuntela Messina, sottosegretaria all’Innovazione e alla Transizione digitale. In un recente intervento ripreso dal Corriere della Sera ha dichiarato che una delle priorità è formare giovani e studenti, e non solo, perché al processo di acquisizione delle competenze digitali si affianchi il “mantenimento saldo di una coscienza critica che rispetto ai temi della velocità e dell’adeguamento merita attenzione e rispetto particolare. Alla velocità va affiancato un tempo del pensare”. Qualcosa si smuove.

Col Covid dei giovani si dice molto male. Hanno quasi tutti contro… difendili, almeno tu.
Ma certo che li difendo! Possibile che nessuno si ricordi cosa significhi avere 14, 16, 18 o 20 anni? Che tormenti, con che potenza si vivono le emozioni? Sì, per carità, non sono bambini e potrebbero capire, ma che diamine: sono ragazzi, nel pieno della loro ricerca di identità frenata dalla pandemia mondiale. Servirebbe imparare a non giudicare, o almeno a leggere i comportamenti – a volte ribelli e apparentemente maleducati – contestualizzando. Come scrivo anche in #Datastories, il Capodanno 2020 aveva promesso a molti Z una miriade di riti di passaggio: per i più grandi diplomi, scelte universitarie, vacanze con gli amici; per i più giovani primi campeggi, primi baci e primi amori. Ma l’arrivo del virus ha cancellato tutto.

Proviamo a raccontare il tuo libro attraverso i capitoli. La bellezza degli small data?
I dati sono bellissimi perché non sono qualcosa di freddo e razionale, ma nascondono tutto quello che riguarda noi esseri umani. E sono ancora più belli quelli che a volte vengono chiamati anche “thick” data, ovvero minuscole informazioni ma di un certo spessore.

Poi parli delle generazioni, tra Silent e Alpha, e dei cinque livelli di insight culturali.
Dietro al selfie di una signora di mezza età ci sono perché molto diversi rispetto a un selfie di una teenager. Il contesto sociale, culturale e politico, nonché la mentalità comune di una fascia di età sono elementi imprescindibili per inquadrare gli small data. Sugli insight invece ci sono diversi livelli di conoscenza, dunque di spessore dei dati che possiamo raccogliere in un gruppo di persone in Rete (e non). Ne ho mappati cinque, dal superficiale al più profondo: i gesti, le abitudini, le credenze, le emozioni, e le tensioni sociali.

Passiamo a Le tracce del futuro alle porte e a La magia dei dati che diventano storie.
Per capire i fenomeni in corso e le tendenze di domani occorre avere naso, una buona dose di immaginazione e, ancora una volta, la capacità di mettere in correlazione le tracce che collezioniamo via via durante la nostra ricerca tra territori e popolazioni. Dalla mappatura degli insight possono invece prendere vita le storie. Ma come si arriva a una vera e propria narrazione? Unendo tutti i puntini con una linea immaginaria, da percorrere con le parole insieme al lettore. L’ultimo capitolo è dedicato proprio a questo.

Conclusione: cosa sappiamo di noi oggi in più rispetto a ieri, e come questo ci aiuta.
Rispetto al passato oggi tutti noi abbiamo l’occasione di prendere molta più consapevolezza rispetto a ciò che lasciamo online, da quando ci alziamo la mattina a quando andiamo a dormire con il nostro smartphone.

Chi sono questi umani che abitano i territori digitali? Degli alieni? O siamo i nuovi “noi”?
Siamo sempre noi. E come nella vita reale, online ci adattiamo all’ambiente che ci ospita. Su LinkedIn siamo più ingessati, su Facebook più lamentosi, su Instagram più liberi a artistici. E ovunque siamo sempre noi. Quando siamo in ufficio non siamo forse più contenuti rispetto alla serata al pub con gli amici a farci una birretta? Ah sì, certo: quando ci si poteva andare.

Un pensiero per le imprese: come interpretare e utilizzare i segnali aspettando la ripresa.
Il segreto è sempre uno solo: mettersi in ascolto. E non solo con le regole del marketing per captare il sentiment – ovvero le opinioni positive, negative o neutre di un segmento di target – ma per comprendere i perché dietro a certi comportamenti. Per fare un esempio concreto: a un’azienda di scarpe non dovrebbe interessare cosa ne pensano dei loro modelli da corsa, o se preferiscono il loro brand a Nike. Dovrebbero concentrarsi anche e soprattutto a capire perché quelle persone corrono, cosa le fa stare bene nella corsa. Cambia il punto di vista, dal prodotto a cosa può fare quel prodotto per loro.

E i brand? Oggi per comunicare devono parlare di significati e andare oltre la narrazione?
Il tanto logoro storytelling oggi funziona solo se parte da quelle piccole e grandi conoscenze che abbiamo sul nostro destinatario – per diventare rilevante ai suoi occhi, coinvolgendolo emotivamente. Funziona come nella vita reale: più cose so del mio interlocutore, più ho possibilità di instaurare un rapporto meno superficiale. Prendiamo la mia nuova vicina di casa: ho osservato che sul balcone ha una collezione invidiabile di cactus rari e ciascuno ha un cartellino col nome. Li cura come figli. Il giorno che ci fermeremo insieme sul pianerottolo ad aspettare l’ascensore, potrò costruire un’interazione autentica, oltre le chiacchiere sul tempo-che-fa. Potremmo entrare in relazione, e allora sì, ascoltare e condividere le nostre storie botaniche. In Rete funziona allo stesso modo.

Ne usciremo? Ma sì, dai. Sul come, aggiorniamo il concetto 2020 di “nuova normalità”.
Guarda, io sono irrimediabilmente ottimista. Ne usciremo più simili a noi stessi e con meno filtri. Se l’anno scorso inseguivamo, io per prima, la definizione di una “nuova normalità”, quest’anno una cosa possiamo portarla a casa: la nuova normalità sarà diversa per ciascuno di noi, a seconda della nostra capacità di risposta alla situazione. Di recente ne ho proprio parlato su Be Unsocial, con questo pezzo sul rapporto tra coping (spoiler: no, non significa copiare!) e creatività. Qualsiasi sia diventata la nostra nuova dimensione, trovo interessante l’approccio giapponese Ikigai, che ci invita a ricordarci sempre qual è la ragione che ci fa alzare dal letto la mattina. Il perché, appunto. Siamo sempre lì.

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