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Alessandro Zonin – Interpretare il cambiamento grazie ai dati della rete: una strategia per ripartire

Alessandro Zonin – Interpretare il cambiamento grazie ai dati della rete: una strategia per ripartire

Alessandro Zonin – Interpretare il cambiamento grazie ai dati della rete: una strategia per ripartire

 di Stefano Tenedini

Cerchiamo “pizza” e il web non ci dice più il locale di tendenza, ma come ce la possiamo fare in casa: così si misura il cambiamento prima e dopo il Covid-19. Cosa abbiamo imparato in questi mesi e come rilanciare le aziende, parlare al mercato, sfruttare le tecnologie, dove e su chi investire, le buone pratiche e gli errori da evitare. E la convinzione che muterà anche il modello organizzativo.​

15/06/2020

Siamo, lentamente e faticosamente, all’inizio della ripartenza dell’economia. Guardiamo al futuro immediato e cerchiamo di scuoterci: il virus rimane e saremo prudenti, però intanto proviamo ad andare avanti. In queste settimane abbiamo letto post e messaggi su come si promuove il business in tempo di crisi sul cambiare passo, scegliere le migliori pratiche ed evitare scivoloni. Ne abbiamo parlato con Alessandro Zonin, Social / Digital Media Strategy Leader per IBM Italia e ora Chief Marketing Officer per DOCK Joined in tech, società legata alla galassia IBM. Gli abbiamo chiesto di mettere a confronto le opportunità di ripresa e le nuove strategie digitali, valutando il rapporto tra i dati, gli strumenti e le strategie.

Solo pochi mesi fa - una vita! - spiegava che analizzare i social media ci aiuta a capire e a utilizzare l’enorme volume di dati a disposizione. È ancora così?
Prima che iniziasse l’emergenza sanitaria se cercavi “pizza” su un motore di ricerca usciva di tutto di più: le pizzerie di moda, quelle più vicine, l’ingrediente giusto, la cottura ideale. Poi, quando il Covid-19 è diventato mainstream, era il virus a occupare e dominare tutti i risultati, che nella quasi totalità rispondevano alle domande “come posso farmela portare a domicilio” e “come posso farmela a casa”. In questi tre mesi di osservatorio particolare abbiamo visto come sono necessariamente cambiate le nostre abitudini: uno straordinario spaccato sociale oltre che un’impressionante miniera di informazioni. Cosa ne salta fuori? Che ciò che abbiamo passato non soltanto ci ha cambiato, ma rimane con noi.

Gli italiani e la pizza! Ma non è una battuta: ha scelto un esempio appropriato per dire che i dati parlano di noi. E adesso che uso possiamo farne?
Possiamo analizzarli per provare a immaginare che cosa succederà nel futuro. Parlando di crisi economica ad esempio vediamo che ci sono interi settori bloccati perché i nostri modi di essere e gli stili sociali sono cambiati. La massa di informazioni che stiamo recuperando è un materiale che studieremo a lungo e che ci permetterà di comprendere in profondità i costumi delle persone, e naturalmente anche gli effetti che questi avranno sull’economia. Penso solo a come si sta evolvendo il comportamento delle aziende e degli influencer, che hanno modificato e tarato la loro comunicazione - online e offline - per intersecare i nuovi bisogni delle persone. Il marketing si adegua alla trasformazione del contesto: ha adottato modi umani ed eleganti di mostrare empatia, di abbracciare il consumatore. Chi riteneva di doverci essere a tutti i costi a volte ha scelto un messaggio che non era quello giusto: lo si è visto da un certo eccesso di retorica. I messaggi semplici infatti sono arrivati meglio.

In questi mesi restare in contatto online è stato fondamentale. La crisi ci ha fatto fare la pace con questo metodo amato-odiato di tenere i rapporti?
In effetti in precedenza c’era un dibattito un po’ integralista sui mezzi per comunicare, ma è vero che l’online in un certo senso ci ha “salvati”. Ed è stato anche lo strumento capace di avvicinare le persone e le aziende alla digitalizzazione. I numeri hanno dimostrato come i social siano stati usati sia per compensare la mancanza di contatto tra le persone che per informarsi e per condividere le esperienze, anche in modalità collettiva. L’Italia è stato il primo Paese occidentale a entrare in un lockdown generalizzato, e Facebook ci conferma che in questo periodo le call collettive sono decuplicate. Tutti i social network hanno fatto qualcosa in questo senso, come Netflix che ha consentito di condividere e commentare le serie o Twitter, che ha creato un canale mirato di informazioni, un aggregatore di notizie. C’è stato anche un effetto positivo sul fronte delle fake news, perché fornire informazioni corrette e concrete ha aiutato a limitare quelle errate o falsate. Gli algoritmi automatici infine hanno permesso di analizzare le notizie sui temi scottanti: certo, a volte esagerando, però questi interventi hanno comunque accelerato la diffusione di informazioni pulite.

Ora l’economia prova a ripartire dovendo contare sulle proprie forze. Che supporto può darci l’analisi dei dati per superare il momento critico?
Può rappresentare senz’altro un aiuto, perché le abitudini di consumo e di viaggio di prima torneranno lentamente. Invece le nuove modalità che abbiamo sviluppato resteranno con noi a lungo: lo shopping online, i webinar, la didattica in rete non se andranno via. E penso al mondo del turismo, ai pagamenti, alla partecipazione a eventi fisici... I settori che erano già attenti alle opportunità digitali hanno avuto l’opportunità di rafforzarsi, ma anche chi non era aggiornato ha potuto strutturarsi per offrire ai proprio clienti le funzionalità e gli strumenti adatti. L’Italia online viaggia a due velocità, ma spero che anche questo migliori.

Dal suo punto di vista come abbiamo affrontato l’emergenza virus e quella economica? Che suggerimenti possiamo trasmettere adesso?
Affrontare la fase dell’emergenza, lo dico sinceramente, è stata una bella lezione. Inoltre, siccome quello che è successo nei mesi scorsi potrebbe capitare di nuovo, saremo meglio preparati. Dalla prospettiva delle aziende e delle professioni, per dialogare con il mercato d’ora in poi non potremo permetterci di farci cogliere di sorpresa o privi delle competenze necessarie. E questo lo ha capito bene chi è rimasto in carreggiata e si è già dato da fare.

Cosa dovrebbe fare subito chi vuole ripartire? Quali gli strumenti e le competenze su cui investire, le direzioni da prendere?
Puntiamo sugli strumenti di customer care. Almeno il supporto telefonico da adesso in poi sarà imprescindibile: occorre non farsi trovare assenti nella comunicazione con i clienti e i fornitori. È quello che hanno fatto settori come i trasporti e la logistica, che per un po’ si sono trovati in crisi e poi si sono ripresi, sviluppando nuovi modelli organizzativi. Anche le competenze sono a un punto di svolta: proprio in questo periodo nero stanno esplodendo le assunzioni, grazie alla crescita di canali digitali e video, perché il mondo chiede sempre più comunicazione visuale e capacità di interpretazione grafica. Le professioni che hanno a che fare con la comunicazione avranno da lavorare di più e meglio. Ci vorrà inventiva: per rafforzare il brand, far sognare le persone, ribadire che si ripartirà. Prendere ad esempio le compagnie aeree che hanno tenuto i contatti con il pubblico, creare iniziative per lo spirito di corpo, esplorare iniziative di co-branding con vecchi e nuovi partner. Non fermarsi mai.

E invece per quanto riguarda gli errori da non commettere più in una simile situazione?
A parte i vari aspetti tecnici, tutti migliorabili, credo che bisognerà aprire un serio dibattito etico: pensiamo a come le persone hanno sofferto il distanziamento, o alle drammatiche condizioni degli anziani, particolarmente colpiti nella fase centrale della pandemia. Adesso è necessario capire come intervenire per rafforzare quei contatti umani che sono stati lo strumento più utile per venire incontro alle generazioni in maggiore difficoltà.

Intanto le tecnologie e l’AI corrono tra analytics, chatbox e assistenti digitali. Ma c’è una strategia per cambiare anche i modelli di business?
Non sono la risposta a tutti i problemi, ma un modo in più per superarli con un’intelligenza aumentata, perché facilitano, amplificano, supportano le capacità umane. Il cambiamento è più una questione di cultura che di tecnologia, anche se aiuta a risparmiare ai dipendenti molto lavoro fastidioso. Ovviamente se questi strumenti diventano più complessi servono budget e competenze superiori, ma ci sono anche soluzioni alla portata di tutti. Ibm per le ragazze delle superiori ha sviluppato laboratori per imparare a programmare i chatbot: e se ce la fanno gli studenti, a maggior ragione può riuscirci un’azienda. Ma appunto: ci deve arrivare prima la cultura aziendale, poi la tecnologia affronta le complessità crescenti.

In azienda ci sono un modello organizzativo formale e uno informale. Adesso, in questo contesto anomalo ed emergenziale, qual è più efficace?
Già prima l’eccesso di formalismo creava barriere. Oggi non è suonata la campanella della ricreazione, ma abbiamo dovuto adottare uno stile di lavoro, se non smart, almeno agile. Quindi le “corsie” restano segnate ma si sono fluidificate, si possono oltrepassare. Siamo diventati tutti “periferia”, stiamo in una posizione da cui possiamo toccare i vari nodi delle nostre organizzazioni: meno formalismi, un po’ più uguali di prima. Molte aziende hanno riportato gli obiettivi al centro, altre potrebbe spingersi oltre, anche pensando ai risparmi. Pensiamo solo ai costi del metro quadro in ufficio, al riscaldamento, all’aria condizionata: con 70 persone in ufficio rispetto alle 100 di prima l’atteggiamento fa presto a cambiare.

Per guardare al futuro: ce la caveremo con la tecnologia oppure con la sensibilità umana di interpretare i cambiamenti, di “sentire” il vento?
Non c’è dubbio, serviranno entrambe. Guardi le stelle e senti il vento, però sei perso senza strumenti come il sestante, che ti dice dove sei e dove devi andare. È stato impegnativo, e ora bisogna consolidare le due visioni per ripartire gradualmente e con maggiore sicurezza