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Alberto Rossetti
Disagio, rabbia, frustrazione: eppure il virus ci fa anche crescere

Alberto Rossetti <br> Disagio, rabbia, frustrazione: eppure il virus ci fa anche crescere

Alberto Rossetti
Disagio, rabbia, frustrazione: eppure il virus ci fa anche crescere

 Intervista di Stefano Tenedini

La pandemia causa vittime, ferite visibili, crisi economiche: ma lascerà anche cicatrici psicologiche difficili da guarire. Le porteranno gli anziani e soprattutto i giovanissimi, chiusi in casa senza amici né amori, consegnati all’incertezza di vite sospese. Ma gli scenari cupi degli adolescenti faranno apparire risorse che sorprenderanno loro stessi e che potranno anche migliorare il loro futuro. Abbiamo chiesto loro di essere responsabili come piccoli adulti? E trattiamoli da adulti, li vedremo sbocciare. Così il dolore del Covid non sarà stato inutile.

19/02/2021
Il lockdown, di cui tra poco l’Italia festeggerà (beh, si fa per dire) il primo anniversario, non è stato un disastro solo per la salute o per l’economia. Lascerà delle cicatrici psicologiche, di quelle che non si vedono ma fanno fatica a guarire, come ci accorgeremo a medio e lungo termine. Alcuni lo hanno sofferto più di altri, soprattutto gli anziani e i giovanissimi. I primi ragazzi hanno lasciato le aule il 23 febbraio, una data che ha segnato il confine tra il “prima” della vita di sempre e il “dopo” dell’incertezza, della vita sospesa. E ancora non è finita. Ma come hanno reagito gli adolescenti alla quarantena, alla noia casalinga? Ciascuno racconta una sua storia e un proprio trauma, e questi frammenti dicono del cambiamento che stiamo attraversando più dei numeri della pandemia. Ascoltandoli capiamo come hanno subito la chiusura delle scuole, come sono cambiati i rapporti con gli amici, gli insegnanti, i genitori.

In apparenza hanno dimostrato capacità di adattamento e senso di responsabilità, con vari livelli di sopportazione o di disagio. E come la tempesta che - una volta attraversata - ci dirà come siamo cambiati, il dopo virus ci consegnerà degli adolescenti nuovi, con sogni spezzati ma anche nuovi amori e nuove idee, facendo emergere le qualità che hanno mostrato e che saranno strumenti utili per il loro futuro. Possiamo già trarne un bilancio? Francesco Masini lo chiederà giovedì 25 febbraio ad Alberto Rossetti, psicologo e psicoterapeuta, che segue da anni progetti di prevenzione dei comportamenti a rischio e di educazione digitale. Tra i suoi libri l’ultimo è straordinariamente attuale: “Amici, scuola, famiglia: cosa ci ha insegnato il lockdown”. Partirà senz’altro da qui il webinar di #Open 2020-21 in Vecomp Academy.

All’inizio come hanno vissuto i giovani la pandemia? Ha pesato sulle loro emozioni?
I ragazzi hanno vissuto il primo lockdown come un evento particolare, unico, come del resto è successo a tutti. Hanno rispettato le regole, sono stati un casa, hanno interpretato questo “tempo sospeso” ritrovandosi con gli amici online e inventandosi giochi, ma anche stando di più in famiglia. È stata una parentesi, una bolla fuori dall’esperienza comune, e in qualche modo ci è sembrato perfino un momento positivo, tanto che in quel periodo i miei pazienti adolescenti non sono venuti, né i genitori mi hanno chiesto aiuto. Incontrandoli per il libro li ho trovati attenti, riflessivi: si sono adattati alla situazione che non consentiva di fare altro, e le emozioni tipiche della loro generazione, come la rabbia, sono venuti meno.

Poi però il primo lockdown ha lasciato il posto all’estate… e alla “seconda ondata”.
Già. L’estate ha permesso di uscire, di ritrovare una parvenza di normalità e vita di relazione che ha rallentato il disagio. Ma l’autunno ci ha portato il conto, e i più giovani hanno vissuto le nuove restrizioni con molta fatica perché non volevano ritrovarsi chiusi in gabbia. Il senso del dovere è diventato insofferenza perché la cifra della pandemia è diventata l’incertezza. Non si sa quando finirà, e non riuscire a immaginare il futuro è un peso insostenibile. Quindi le emozioni sono diventate più intense, dalla rabbia alla tristezza e alla frustrazione, con una conseguente esplosione delle sintomatologie. Oggi vediamo un’apatia generalizzata, non ce la fanno a riprendersi i loro spazi, hanno interiorizzato le regole, obbediscono muti. Il che è peggio, perché sono manifestazioni non visibili di disagio, non capisci se stanno bene o male. E la scuola non aiuta, non dà stimoli, spegne le voglie, in un circolo vizioso negativo.

Si sono rifugiati nel web: quindi i social non sono sempre il male che immaginiamo.
Infatti. Nei mesi di chiusura totale la tecnologia della Rete ha facilitato la vita delle famiglie, permettendo a tutti di condividere il peso. Ai ragazzi ha consentito di mantenere relazioni stabili con gli amici, senza le quali senza sarebbe stato ancora peggio. Da un certo punto di vista è stata una “scuola” accelerata: all’inizio si tenevano strette tutte le amicizie, poi pian piano hanno iniziato a selezionarle. Hanno capito la differenza tra gli amici veri e i semplici contatti, hanno scelto di restare vicino a chi li fa stare bene e li ascolta. È uscita anche tutta la loro creatività, inventando modi nuovi per stare insieme, giocare, crescere.

Maschi e femmine hanno vissuto in modo diverso questa “vita digitale” obbligatoria?
“Di solito si pensa che ai maschi sia mancata di più l’esperienza fisica, il contatto, ma anche le femmine ne hanno sofferto, Le ragazze però sono state più capaci di stare insieme online, di condividere pensieri, ragionamenti, di restare vicine e accompagnarsi reciprocamente “in diretta”, anche se a distanza. In linea di massima direi proprio che le differenze di genere si sono livellate, ma dovremo aspettare i veri effetti di queste chiusure. Come sintomi? Segnali negativi se ne vedono parecchi, dalla didattica a distanza che non ha raggiunto tutti i giovani alle crescenti richieste di aiuto. Pensiamo ad esempio al carico di responsabilità che società e informazione sta attribuendo ai giovani, chiamati a comportarsi bene, a darsi delle regole in questa età di trasgressione, a ridurre in ogni modo la loro libertà per non portare il virus ai nonni o ai genitori. I sintomi non si vedono, ma questa retorica ha un peso psicologico.

Chiusure e solitudine scardinano le certezze in un’età che già di suo le demolisce...
Sì, ma vorrei comunque trovare un effetto positivo di questa situazione. I ragazzi sono stati spinti a confrontarsi con un contesto complesso, che li ha obbligati a trovare risorse che non pensavano di avere, come stare senza amici, sopportare la famiglia, trovare all’esterno spazi “sani”, stare bene e divertirsi in modi impensato, perfino scoprire che la solitudine ha i suoi vantaggi. Rimanere così pesantemente e a lungo fuori dalla zona di comfort li ha obbligati a confrontarsi con l’imprevisto, e questo è un bene, anche perché oggi li proteggiamo troppo. Poi distinguerei tra gli adolescenti più grandi, che hanno giù una loro solidità, e i più piccoli che hanno perso i loro consueti di riferimento. Direi che quanto più sono emancipati, capaci di cavarsela da soli, tanto meglio hanno resistito. Hanno fatto fatica invece i più dipendenti dalla famiglia, incapaci ancora di staccarsi e di fare esperienze individuali. È il messaggio per i genitori: lasciate più spazio ai vostri ragazzi, vigilate ma lasciateli sbagliare.

Ma questa esperienza di “arresti domiciliari” domani aiuterà i ragazzi a crescere?
Io credo di si, assolutamente. Non solo perché stanno acquisendo competenze nuove e utili per il loro futuro, per trasformare magari un hobby o una passione emersa in questi mesi in un possibile percorso professionale dopo gli studi, ma anche perché stanno sviluppando la consapevolezza che il mondo non è sempre a nostra disposizione, un luogo in cui si può fare di tutto e sempre, a piacimento, ma si deve anche imparare il senso dei limiti. E infine, per tirare le somme, ricordiamo che ce l’abbiamo fatta, ciascuno con la propria storia e il proprio modo di affrontare e superare gli eventi. Noi e i ragazzi saremo dei sopravvissuti: che non si sono salvati da soli ma con le persone care, amici e famiglia, che ci sono state più vicine.

“Noi e i ragazzi”: come adulti che cosa possiamo ereditare da questa realtà sospesa?
Abbiamo in comune con loro molto più di quanto immaginiamo, ad esempio scoprire che ci sono ampi spazi di miglioramento. Si ritiene che nelle fasi di emergenza all’apparenza vinca l’individualismo, invece ci siamo accorti che se ne esce meglio ragionando in una prospettiva comune, collettiva. Non si possono superare la pandemia, la crisi economica o il conflitto da soli sgomitando, oppure guardando solo al proprio orto: ma insieme, come esseri sociali. E poi noi adulti possiamo imparare che i figli vanno lasciati andare, che anche in famiglia c’è bisogno di conservare i propri spazi individuali. Che quando i ragazzi li lasciamo andare, non li leghiamo, poi tornano comunque: quindi fidiamoci di loro, molliamo la presa.

Una lezione utile per tutta la famiglia, quindi. Ci servirà per stare insieme meglio?
Osservando le situazioni in cui un adolescente sta male, sono abituato a osservare anche gli altri componenti della famiglia. E vedo che quasi sempre vengono a galla, e si riconoscono, le criticità dell’intero nucleo. Il disagio però emerge naturalmente nella persona più fragile. Non perché i ragazzi siano deboli, ma perché insieme all’affetto non vengono loro assicurati i necessari spazi di maturazione e di evoluzione. Vorrei dirlo così. Abbiamo chiesto ai giovani di comportarsi da adulti. Lo hanno fatto. E allora ripaghiamoli trattandoli da adulti.

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