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Ada Rosa Balzan - Un’economia più etica e sostenibile sarà il motore della ripresa

Ada Rosa Balzan - Un’economia più etica e sostenibile sarà il motore della ripresa

Ada Rosa Balzan - Un’economia più etica e sostenibile sarà il motore della ripresa

 di Stefano Tenedini

Clima, produzione, commerci, e ora il Covid, da cui stiamo tentando di uscire, ma con lentezza e molti dubbi: è la prova che i vantaggi della globalizzazione hanno generato anche squilibri e incertezze che vanno corretti. L’impegno per l’ambiente, i diritti e la salute è LA vera sfida del futuro, e le aziende possono diventare in concreto protagoniste nel cambiamento e nel rilancio dei mercati.

09/06/2020


 “La globalizzazione porta inevitabilmente problemi globali: non possiamo lasciare che tutto il sistema economico, sociale e ambientale proceda senza un progetto e privo di controlli su come si sviluppa. Il Covid-19 è il secondo segnale di allarme che riceviamo. Il primo assaggio ce l’ha dato l’emergenza climatica, anche se non abbiamo ancora capito con quanta urgenza bisogna agire.  Con Greta e la mobilitazione dei Fidays For Future abbiamo raggiunto almeno la consapevolezza che il riscaldamento globale è un problema di tutti. Il virus ci ha obbligato a fare la prima drammatica esperienza su come certe minacce vadano gestite insieme”.

Ada Rosa Balzan si occupa di sostenibilità da oltre vent’anni. Imprenditrice e docente, tra le prime esperte del settore in Italia, ora con la sua start-up ha creato un modello di rating che misura la sostenibilità complessiva delle aziende basato su strumenti riconosciuti in tutto il mondo. “L’evento Coronavirus non ha paragoni con quanto è successo in precedenza – spiega –. È peggio di una guerra perché crea infinite incertezze: come affrontarlo, come ne stiamo uscendo, come gestire la crisi economica, immaginare che mondo vivremo dopo”.

Come si ritroverà la società mondiale all’uscita da questo momento critico?
L’angosciosa scoperta che noi – e tutte le nostre certezze – siamo così precari ci costringe a definire nuove priorità, che tengano conto di come e quanto in fretta le situazioni possano cambiare. Ci dovremo anche abituare a mettere in conto che nel futuro queste epidemie faranno parte del nostro scenario, a ragionare su un’immediata gestione dei rischi. Inutile negare che passata l’emergenza da un lato troviamo spinte e nuovi stimoli per ripensare noi stessi, mentre sul lato psicologico ci siamo ritrovati destabilizzati, senza i nostri riferimenti di prima. Dobbiamo chiederci cosa vogliamo fare ed essere, e che contributo dare al mondo.

E non c’è solo la pandemia: dobbiamo risanare la produzione, il lavoro, il commercio.
È naturale. Adesso è necessario condividere nuovi paradigmi anche sul piano economico, perché sentiamo la spinta e l’estrema urgenza di riconsiderare le nostre posizioni concrete in termini di sostenibilità. Da questo punto di vista il Covid-19 avrà, se non altro, l’effetto di far suonare la sveglia per tutti, anche sotto il profilo della globalizzazione. Negli ultimi anni i mercati si sono interconnessi come non mai e ora coincidono con il mondo intero: ciò ha portato indubbi vantaggi ma anche molti squilibri e complicazioni che andrebbero sanati.

Può fare un esempio di questi svantaggi economici ai quali dovremo porre rimedio?
Nella corsa a una produzione a costi ridotti, ad esempio, non abbiamo valorizzato la filiera della microeconomia locale, che va recuperata. Abbiamo visto con il lockdown che quando la grande catena di produzione e distribuzione va in tilt sono le piccole imprese a salvarti, le botteghe sotto casa. I negozi di prossimità e i mercati a chilometri zero non sono più folclore ma un’opportunità concreta, valida in tutto il mondo sia nelle città che nei piccoli paesi.

Un diverso approccio che potrebbe diventa missione sociale e strumento per rialzarsi.
Nella sostenibilità sono sicuramente compresi anche concetti come l’etica, il rispetto, il “ben fare”, la resilienza delle persone e delle aziende. Se diamo spazio a comportamenti virtuosi ne avremo una ricaduta positiva per tutti. In questo necessario processo di ridefinizione del nostro futuro non dimentichiamo che la stessa enunciazione del principio di stakeholder risale ancora al 1963, quando lo Stanford Research Institute definiva gli stakeholder come “quei gruppi da cui dipende l’organizzazione per la sua sopravvivenza”. Detto in altre parole, non siamo atomi ma gruppi di persone portatrici di interessi e di solidarietà. Siamo “catene umane” cui occorrono vicinanza, parole, presenza, visione. Certo non torneremo a vivere in campagna con le galline, ma potremo ridurre gli eccessi della globalizzazione.

In che modo è possibile rendere sostenibili processi economici e modelli aziendali?
Per esaminare questo sviluppo bisogna far entrare in gioco la resilienza, cioè la capacità di affrontare e superare un evento traumatico, un momento di difficoltà. Questo vale sia per la tematica ambientale che per la riorganizzazione delle aziende su nuove basi: è necessario non solo rialzarsi, ma che ciò si trasformi in un “rimbalzo in avanti”. Dovremo reinventarci, perché non saremo più quelli di prima. Ora la sfida è creare un’azienda differente, perché saranno cambiati i riferimenti stessi. A tale proposito, ci sono indici che misurano la capacità delle aziende di essere resilienti e di gestire il rischio: le migliori performance le ottiene chi è più reattivo, si trasforma, cambia per non soccombere. Ci sono tre fattori chiave, la “triple bottom line” su cui puntare: pianeta, profitto e persone. Vuole dire che c’è una relazione diretta, non rinviabile, fra ambiente, economia e scelte della società. E bisogna intervenire con decisioni che non siano solo di facciata, di marketing.

Società ed economia... quindi parliamo di aziende e delle persone che vi lavorano.
Certamente, perché le persone costituiscono l’identità delle aziende. Quindi occorrerà una decisa modifica nel rapporto che le lega. Voglio dire che nel futuro la fiducia reciproca dovrà sostituire il controllo: avere stima nei collaboratori significa dar loro credito, una relazione in grado di migliorare la qualità della vita e le performance aziendali. Rispettare i ritmi e stabilire insieme gli obiettivi per poi valutare i risultati prenderà il posto del cartellino da timbrare, ma contribuirà anche a un migliore equilibrio tra vita e lavoro, casa e ufficio. In tutto questo va specificato che il profitto in sé non va demonizzato, se ottenuto equamente. Il guadagno porta beneficio agli stakeholder: negli obiettivi dell’Agenda Onu 2030 c’è anche il “lavoro dignitoso”, che ingloba questi valori. Parte del valore prodotto dall’azienda rimane al territorio, in modo da lasciarlo in condizioni migliori di come l’abbiamo trovato.

Si può intervenire sulla governance per arrivare a un modello di impresa resiliente?
Sì, e non mi riferisco solo alle imprese private, ma anche a quelle pubbliche e alle istituzioni. Immagino una governance distribuita, un’integrazione di visioni e azioni che consenta di dare rapidamente al territorio le risposte che attende. In azienda, il segnale di cambiamento deve venire prima di tutto dall’alto, ma dev’essere scelto e vissuto da tutti come priorità. Sempre in quest’ambito aggiungo che la sostenibilità offre ampi spazi di crescita alle donne, portate a coltivare una visione del futuro e a prendersi cura delle persone, con la sensibilità che le spinge a volere per i propri figli un mondo migliore, più giusto, in equilibrio.

La sostenibilità può anche aiutare a far ripartire le aziende e l’economia italiana, in questo momento in cui possiamo misurare anche le difficoltà in prospettiva?
Partiamo dal presupposto che la natura l’abbiamo sempre sfruttata, ma non ce ne rendiamo conto perché in apparenza non porta addosso il cartellino del prezzo. Ma questo non può e non deve nascondere il valore del pianeta, se no pagheremo tutti un costo molto salato. Le aziende che si interrogano su cosa dovranno essere nel dopo-virus devono considerare che la clientela vorrà vedere un cambiamento sostanziale, non solo apparente. Una sostenibilità “reale” in questo momento potrà favorire la ripresa del business e aprire nuovi mercati. In Italia non siamo pronti, ma conviene prepararci bene per intercettare i fondi europei e non sprecare le occasioni di rilancio che ci vengono offerte. L’accesso al credito dipende dalle performance di sostenibilità delle aziende, perché oggi numerose ricerche considerano le più sostenibili anche più stabili. Ma dev’essere una trasformazione vera, non un espediente.

Sostenibilità quindi tra i motori della ripresa. E se qualcuno ancora non ci crede?
Beh, passare da essere tra i migliori fornitori a essere rifiutati dai clienti non è un’eventualità da sottovalutare. Basta poco: se lavori in una filiera e non rispetti quei criteri di sostenibilità applicati in misura sempre più stringente, sei fuori. Come si sta già vedendo, capita sempre più spesso, ad esempio nell’automotive: il mercato si restringe per l’impatto di auto meno inquinanti o elettriche, e la concorrenza tra fornitori ora si gioca anche sulla compliance ambientale. Vivacchiare non basta: una volta estromesso dalla filiera è difficile recuperare.

Oggi la certificazione ha un valore enorme: senza arrivare allo sciacallaggio di chi pretende un inesistente “bollino” virus-free, come s’è letto sui giornali, la percezione è che l’economia debba arrivare a un drastico cambio di passo, una scelta inimmaginabile solo pochi mesi fa. Ci stiamo accorgendo che ambiente, diritti umani e virus sono diverse battaglie della stessa guerra. La sostenibilità è la grande sfida del futuro, e il Covid-19 ci aiuta ad aprire gli occhi.