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Trump o Biden non farà molta differenza: la strategia imperiale dell’America è (quasi) immutabile

Trump o Biden non farà molta differenza: la strategia imperiale dell’America è (quasi) immutabile

Trump o Biden non farà molta differenza: la strategia imperiale dell’America è (quasi) immutabile

 di Stefano Tenedini

Dalla lotta alla pandemia alla ripresa dell’economia, dal duello con avversari storici come Russia e Cina o più recenti come il Vaticano, dai contrasti europei per la “scalata” della Germania alla visione dell’Occidente. I due contendenti alla Casa Bianca avranno pochi spazi di manovra, limitati come sono dal ruolo di superpotenza globale. A distinguerli è la “narrazione” degli eventi e il modo di rivolgersi agli alleati e agli oppositori: ma il percorso appare già delineato.
 

25/10/2020
Siamo a pochi giorni dal voto: gli elettori repubblicani e democratici hanno la responsabilità di decidere dove andranno l’America e il mondo nei quattro anni fino al 2024. Ma chiunque sia, il prossimo inquilino della Casa Bianca non potrà cambiare più di tanto la politica interna e quella estera degli Stati Uniti. Perché l’unica potenza imperiale globale deve muoversi su un tracciato già delineato, quasi obbligato. È quanto sostiene Dario Fabbri, un affezionato amico di Vecomp Academy: analista e responsabile del desk America della rivista Limes, sarà protagonista dell’appuntamento con la nuova puntata di #Open giovedì 29 ottobre.

Per non obbligarlo a un pronostico (che vale, dicono a Washington, “come una palla di neve all’inferno”) gli abbiamo proposto alcuni argomenti da analizzare a prescindere dal risultato, da valutare indipendentemente da chi da gennaio dormirà nella camera da letto di Lincoln. Sono temi chiave, di stretta attualità, che riportano visioni teoriche e aspetti concreti. E che coinvolgono le strategie americane sul piano nazionale ma anche i rapporti con il resto del mondo. Per ciascuno di questi temi abbiamo chiesto a Fabbri una risposta doppia, che parta sempre dal medesimo punto: “Che cosa cambierà – o resterà uguale – se dovesse vincere di nuovo Trump? E se invece gli elettori portassero Biden alla Casa Bianca?” Eccoli.

La gestione della pandemia è stato uno dei temi principali della campagna elettorale, così come il controllo dei contagi. Che cosa potrebbe cambiare?
Nelle ultime settimane, anche dopo essere uscito dall’ospedale, Trump non ha modificato il suo approccio nella lotta al Covid. Anzi la sensazione è che se venisse rieletto manterrebbe tutto il suo scetticismo verso le ipotesi di chiusure, quarantene o restrizioni della libertà di movimento. Al contrario, visto che la sua malattia non lo ha spinto a cambiare strada e lui stesso si definisce “immune”, probabilmente inasprirebbe questa narrazione, che peraltro è condivisa da molti americani. All’inizio l’atteggiamento di Biden potrebbe essere diverso: un metodo forse più “europeo”, con maggiore cautela e attenzione, spazio agli scienziati come Fauci, decisioni anche impopolari. Ma credo che la logica di Biden si scontrerebbe con le resistenze dell’America profonda, diffuse ovunque. Un bel pezzo del Paese considera una sconfitta restare chiusi in casa, e non vuole stare alla finestra a guardare il mondo. Con Biden il contrasto tra chi sta sulle coste e chi vive in mezzo agli Stati Uniti rimarrebbe inalterato: gli americani si stanno dimostrando più irrazionali e meno ordinati perfino degli italiani.

Che cosa potrebbe cambiare nelle scelte di politica economica, ad esempio in che modo favorire la ripresa della produzione e dell’occupazione?
Trump nei primi anni del suo mandato puntava sul “reshoring”, cioè spingeva per riportare negli Stati Uniti le industrie che avevano delocalizzato. Ma ora con la crisi vorrebbe rientrare meno del 10-15% delle aziende. E siccome non può usare l’arma dei dazi come farebbe con le imprese straniere, dovrà inventarsi qualcosa d’altro, che per ora non si vede all’orizzonte. Biden si troverebbe alle prese con gli stessi problemi e quindi avrebbe gli stessi obiettivi: far risalire i fatturati e il lavoro, che cosa fare di questo modello economico, di una manifattura americana sempre più arrugginita. Proverà anche lui a far tornare le imprese, modificando l’approccio col Messico e la Cina, ma avrà poco spazio di manovra. Rinegozierà il Nafta col Messico, per mettere il marchio “assemblato negli Usa” alle merci prodotte oltre frontiera, ma il nocciolo della questione resta politico, non economico. Il deficit deve crescere, perché mantenere al centro del mondo globale l’America “imperiale” è molto costoso. Può provare a dirottare parte della capacità produttiva cinese in altri Paesi, ad esempio in Indocina, dove però mancano le infrastrutture. E in patria si ritrova col settore dell’hi-tech che vale molto in termini di visibilità e prestigio, ma crea pochi posti di lavoro per gli elettori democratici. A salvare l’automobile ci aveva provato già Obama, ma oggi è più difficile spingere su “buy american”: Biden può tentare con la transizione green, ma in quel settore la sostenibilità non tira, a meno che non voglia farne una battaglia di bandiera del governo.

Dagli Usa alla situazione internazionale. L’“Occidente contro tutti” è passato di moda o è una formula che potrebbe tornare d’attualità contro i nuovi avversari?
Dopo la guerra fredda l’idea di un sistema organizzato, che condividesse con Washington la visione politica, i legami economici e le alleanze, era un po’ sbiadita. Infatti Trump si è tenuto le mani libere. Però oggi che l’America deve affrontare dei “nemici” veri come Cina, Russia, Iran e Turchia, ciascuno alla testa di una propria specifica legittimazione, con le radici nella storia, agli Stati Uniti occorre la “civiltà americana”, perché ora hanno solo una “cultura”. Di qui il ritrovato attivismo in tante parti del mondo. Un esempio per tutti: la Polonia, che da sempre si trova a fare da cerniera tra Russia e Germania, oggi chiede una copertura anche militare e l’America la sostiene proprio perché intende restare in Europa come protagonista. Se Biden dovesse prevalere certamente abbasserà i toni ma condividerà la strategia: il suo Occidente parlerà di valori, di democrazia, di diritti, ma dovrà comunque dare risposte tanto agli alleati quanto ai “nemici”. E anche questo contribuirà a fissare ulteriori paletti.

L’Italia è una piattaforma decisiva per gli Stati Uniti, soprattutto sul piano militare. Ma gli andiamo bene anche se siamo così sfuggenti, incerti e opportunisti?
L’Italia è un po’ superficiale perché ha bisogno di soldi, ed è difficile dir di no a chi te li offre o li promette. Abbiamo firmato un memorandum d’intesa con la Cina, poi abbiamo frenato l’entusiasmo sia sulla “Via della seta” che sul 5G. Ora siamo contenti del Recovery Fund UE, senza sapere come avremo gli aiuti e per farne cosa. Pensiamo alla Germania, che ha deciso di fare un passo avanti iniziando a comportarsi esplicitamente da leader europeo, perfino litigando con i suoi satelliti Olanda e Austria. Perché? Per salvare quel Nord Italia che delle sue aziende è un fornitore privilegiato: ma chissà Berlino cosa deciderà di fare dopo. E cosa ci chiederà in cambio, in economia e in politica estera. Gli americani non gradiscono questo attivismo né la nostra dipendenza dalla sfera d’influenza tedesca: ma l’Italia non ha una sua politica estera, vive di ideologia e di aiuti, continua a barcamenarsi tra Europa e America. Anche qui non conta se nei prossimi quattro anni alla Casa Bianca ci sarà Trump o Biden. Entrambi dovranno seguire strade simili: al massimo Biden userà una narrazione inclusiva, ma continuerà a soffrire la dominazione tedesca sull’Europa e a ostacolarla. È il motivo per cui gli Usa torneranno a ribadire la loro dottrina nonostante la fase nuova del “vogliamoci bene”. Noi dobbiamo ricordarci soprattutto che la UE non è al centro dei loro interessi, se non in funzione anti-tedesca: insomma, la Germania non deve crescere troppo.

Con la Cina invece la partita è davvero seria, non solo in economia. L’esito delle elezioni americane potrebbe cambiare i toni e i modi dello scontro?
L’ostilità rimarrà inalterata e in Estremo Oriente cambierà davvero molto poco per entrambi i candidati alla presidenza. Il caposaldo della dottrina americana nell’area resta comunque il contenimento marittimo, con la guerra dei dazi e il freno all’espansione tecnologia cinese. Oltre ai Paesi dell’Indocina di nuova industrializzazione, qui Washington sa di poter contare sul Giappone, costante alfiere di questa visione e più preparato militarmente che in passato.

La Russia in costante fermento complica ancor più i rapporti con Putin. Oltre alle sanzioni bisognerà affrontare gli scontri tra i Paesi ex satelliti di Mosca.
Se dovesse vincere, Biden proverà a cambiare passo rispetto a Trump dicendo “qualcosa di carino”. Ma esattamente come fece Obama dovrà prima o poi tentare una sorta di dialogo, se non altro per spingere la Russia contro la Cina o almeno evitare che ci si avvicini troppo. Però la vecchia teoria di usare uno dei nemici contro l’altro nemico non tiene conto che la Russia continua a cercare di avvicinarsi all’Europa. Attendiamoci grandi bordate di Biden contro Putin, poi un test di apertura – che politici e militari americani bocceranno per paura di perdere la presa sull’Europa. Già oggi le tensioni in Caucaso servono a posizionarsi nello scacchiere: ai russi per controllare le spinte centrifughe, agli Usa per farsi “vedere” in zona.

Nonostante un Trump poco interventista, l’America non può chiudersi in difesa. Cosa farà sul piano strategico? In che modo questo potrebbe coinvolgere la Nato?
In effetti gli Stati Uniti negli anni di Trump si sono limitati a reagire agli eventi: e non è stata una cattiva idea, visto che eravamo abituati ai loro numerosi interventi, scomposti e poco funzionali per la strategia imperiale – che non vuol dire imperialista. Si tratta di lasciare che gli altri si azzuffino tra loro senza farsi avanti in prima persona se non proprio indispensabile. Al di là delle differenze fra Trump e Obama, per mantenere l’assetto internazionale c’è solo questa logica, anche perché gli americani non amano chi vuole trascinarli nell’avventura di “esportare la democrazia”, come si è visto con l’Afghanistan e poi con Saddam. Biden non modificherà molto la strategia: cambierà come sempre la narrazione, ma interverrà il meno possibile. Prestiamo attenzione al racconto e a come lo descriveranno i media, che spesso sono i soli a credere ai cambi di rotta: si perseguono sempre gli stessi obiettivi. Tutto questo vale anche per la Nato, di cui si continua a parlare in termini di rifondazione, nuova funzione, di compattezza da ricostituire. Diciamo serenamente che è un bluff: serve a impedire che in Europa nasca un esercito forte e autonomo. Le richieste americane di spendere di più per la Nato “oppure ce ne andiamo” sono solo parole vuote. A parte Londra, spende di più solo chi ha l’ossessione della Russia, come la Polonia e i Baltici, o i greci in funzione anti-turca.

A proposito di fronti: ce n’è uno inatteso col Vaticano. Divisi sulla Cina, la globalizzazione e il terzo mondo: come si giocherà questa insolita sfida?
Quella con la Roma oltre il Tevere è una bella partita ed è tutt’altro che scontata, soprattutto in questo momento. Il Vaticano è l’unico altro vero impero globale, e gli Stati Uniti provano a usare il Papa in funzione anticinese come prima avevano fatto con Giovanni Paolo II contro la Russia. D’altra parte storicamente il Vaticano non ama l’America, perché costituisce un altro rivale imperiale. In quanto monarchia assoluta ha una vasta influenza che Francesco sta spostando dall’Occidente al resto del mondo. Guarda soprattutto ai più poveri: l’Africa, la Cina, l’Oriente popolato di grandi masse prolifiche che ritiene il futuro della Chiesa e del pianeta. Tutto ciò spaventa gli Stati Uniti, che faranno il possibile per riportare la religione dalla propria parte: ma la Chiesa è “su piazza” da un paio di migliaia di anni e sta reggendo bene la sfida per superare l’assetto filo-occidentale. Con questo Papa lo scontro è garantito: anzi, si è già aperta la lotta verso il conclave che eleggerà il successore di Francesco. È una vicenda che avrà impatto sulle politiche globali per molti anni. Con le dovute proporzioni, è esattamente quanto sta accadendo proprio in questi giorni alla Corte Suprema americana…