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Vera Gheno
Comunicazione: non è ancora emergenza, ma bisogna ritrovare il confronto con l'altro

Vera Gheno <br> Comunicazione: non è ancora emergenza, ma bisogna ritrovare il confronto con l'altro

Vera Gheno
Comunicazione: non è ancora emergenza, ma bisogna ritrovare il confronto con l'altro

Sembra che non siamo più capaci di confrontarci senza scadere nel tifo e nella sopraffazione: una guerra per bande che troviamo ovunque nella società: fra i talk show, la politica e i social vince l’insulto. Eppure guardandoci con l’occhio pragmatico della sociologia e del linguaggio non siamo messi così male: forse più immaturi che violenti, abbiamo paura della diversità, delle novità e di una complessità che fatichiamo a gestire. Con le parole si gioca, le si inventano, le si interpretano e si ricuciono gli strappi. E non demonizziamo il web, perché ci mette in contatto con il mondo e ci porta fuori dalla nostra “bolla” di certezze. Un consiglio? Scegliamo il “pensiero lento”: quello veloce scatena il conflitto!

Testo di Stefano Tenedini

Oggi a molti sembra di vivere in un‘emergenza della comunicazione. È inutile fare esempi: gli ultimi anni, con una cascata di crisi una peggio dell’altra – tanto che non pensavamo di poterle affrontare e superare – hanno confermato che non sappiamo più dialogare senza che la conversazione e il confronto si trasformino in sopraffazione. Non ci si concentra sui contenuti, qualsiasi discussione è sostituita dal tifo e dallo schieramento per bande: fra le corride dei talk show, gli scontri istituzionali e la violenza dei social, ribattere civilmente è impossibile, e così si passa agli insulti. Quindi, constatato che anche la comunicazione è in emergenza, il tema è entrato di diritto tra gli appuntamenti di #Open 2022-23 in Vecomp Academy. Perché, come spiega Francesco Masini, “la cultura d’impresa non può fermarsi, anzi: deve continuare a crescere anche e soprattutto nei periodi di crisi e di incertezza”.

Visto che utilizziamo linguaggi che non favoriscono di certo la comprensione tra le persone e i gruppi – oltre a peggiorare di molto l’efficienza delle organizzazioni – chi meglio di una sociolinguista come Vera Gheno per chiarire la situazione e proporre come correggerla? A proposito, chi è e cosa fa una sociolinguista? Finora era l’etichetta che aveva scelto come sintesi del proprio lavoro, ma ultimamente ha mutato la definizione in “etno-pragmatista”. Non sono giochi di parole, perché la loro è una bellezza è a doppio taglio, che sa tagliare e rammendare. Le parole ci permettono di divertirci con loro, ma è un gioco serissimo: aiuta a costruire linguaggio, comportamenti, relazioni tra individui e all’interno della società. In altre ...parole, appunto, intervengono sulla nostra visione del futuro che vogliamo.

Partiamo da qui, da una giovane donna che per il linguaggio e il lessico nutre un affetto tale da lavorare per 24 anni all’Accademia della Crusca. E che per mettere a frutto quanto ha appreso ha portato la sua competenza fuori dal mondo accademico: sostenendo tesi e proposte anche molto forti e divisive, andando a cercare i punti critici e scrivendoci libri. Lo ha fatto e lo fa tuttora per vedere se era possibile ricucire gli strappi e proporre nuove prospettive per una comunicazione più adatta ai tempi. “Sociolinguista descriveva bene chi ero, metteva in fila in una parola sola tutte le mie esperienze, le curiosità, i temi di cui mi occupo”, spiega. “La lingua è un modo per comprendere come stanno le persone, per capire – e farsi spiegare – come si vive e cosa si pensa in questo momento storico”.

Dice di avere scoperto da adolescente il potere della parola: “Uno strumento che ammalia, che ti permette di comprendere come sei davvero: come sai esprimerti rende addirittura secondario il come sei fatto. La tua capacità di comunicare ti dà un potere in più: quello di interagire con le persone. La realtà è che facciamo fatica a comunicare con gli individui e con la società: cerchiamo di essere efficaci attraverso i risultati, non altrettanto nel modo. Eppure non sono convinta che siamo davvero in emergenza. Le parole ci propongono altri significati oltre al primo che salta all’occhio: ed emergenza significa anche vedere qualcosa che viene a galla. E io vedo emergere quanto sia aumentata la capacità di comunicare”.

Non tutti allo stesso modo e con lo stesso successo, dice facendo l’esempio del parlare in pubblico, che non è una capacità innata ma la si può imparare. Eppure siamo sempre più connessi, anche grazie ai social. “Ne ho avuto una conferma quando una frase estratta dal mio libro “Tienilo acceso”, scritto con Bruno Mastroianni, è stata scelto per le tracce della maturità 2022”, racconta aggiungendo che “quando è uscita la notizia io ho fatto qualche gesto scaramantico, perché di solito questo onore lo concedono solo ai morti... Ma i social non sono necessariamente un male, e non lo è il web che ci consente di confrontarci con tutto il mondo”. Siamo costantemente “On Life”, non solo online, il che ci dimostra che la nostra vita virtuale è in continuità con la vita reale. Quindi non ritengo la comunicazione un’emergenza, ma semmai un’immaturità: come comunichiamo si evolve e accelera così in fretta che noi siamo rimasti indietro e non riusciamo a star dietro alla complessità”.

Nel privato – e anche nel lavoro – quando comunichiamo lo facciamo per stare meglio e cercare una felicità che ci renda la vita migliore. Come conquistarla? Attraverso l’ascolto: per questo in ufficio ascoltiamo il mercato, i clienti, i colleghi... ascoltiamo il cambiamento stesso. Solo così possiamo trasformare la paura del nuovo e del diverso, che per i greci si chiamava xenofobia, in uno scatto in avanti, verso la curiosità. Nella continua rincorsa alla comunicazione ideale spesso scegliamo tra esprimerci in modo tecnico o semplificare ciò che diciamo per renderlo comprensibile a tutti. Il tecnicismo è una tattica comprensibile: già a scuola ciascuno di noi si crea un tesoretto di parole, un lessico “di qualità” che però a volte diventa un vocabolario da azzeccagarbugli. “Lo capisco, è un elemento di identità, e poi uno ci studia tanto che le parole che ha imparato vuole usarle”, conferma Vera Gheno. Ma a chi non fa parte della cerchia degli specialisti sembra un gergo iniziatico, per pochi: bisogna distinguere i due ambiti. Con i colleghi si può, perché parliamo al nostro mondo, ma come si comunica con gli altri? Chiedendosi chi sono i propri interlocutori e adattando il lessico, senza credere di dover scrivere “bello” per fare bella figura col pubblico. Ma poi all’estremo opposto c’è il rischio di semplificare troppo, cadendo nella banalizzazione.

A rendere il quadro ancora più complicato è il barocchismo ereditato a scuola, che rende il linguaggio volutamente difficile. Per forza dopo l’università il giovane avvocato si sente, se non costretto, almeno spinto a infarcire i discorsi di latinorum. “Grandi scrittori e linguisti, come Calvino o De Mauro, hanno insegnato che non bisogna mai accontentarsi, insistere, rifinire, ripulire il proprio linguaggio. E soprattutto non rivolgersi solo alla propria bolla. Io quando serve uso anche il turpiloquio”, ammette la nostra etno-pragmatista. “Ma il punto è che bisogna saperlo usare e in quali contesti, altrimenti suona male”. Una vera e propria emergenza della comunicazione è invece quella che riguarda i media: le notizie sui giornali e in televisione sono scritte male – o lette, raccontate –, ci sono refusi e strafalcioni che un tempo i correttori di bozze avrebbero scovato e sistemato, mentre ora risaltano in pagina o nei Tg facendo imbestialire lettori e telespettatori. Senza parlare anche di tifo, faziosità e spesso anche di malafede. “I giornalisti, soprattutto i più giovani, vengono pagati poco e il lavoro viene fatto male, ma nessuno sembra farci caso. Un antidoto? Fornire prodotti di migliore qualità per favorire consapevolezza, competenza e capacità di analisi: un circuito virtuoso che richiede molto tempo, ma potrebbe sicuramente migliorare la situazione”.

Altro tema di grande attualità è creare e adottare un linguaggio inclusivo: un termine che indica la possibilità di usare parole che non dividano o – bruttissimo – buttino via intere “categorie” di persone, che è già un modo pessimo di definirle. Parliamo di genere, delle preferenze sessuali, di etnie, di idee politiche. Ma anche di aspetto fisico, di disabilità, di carattere e caratteristiche usate per isolare e rimuovere gli altri dal contesto sociale. “Non lo definirei neanche più linguaggio inclusivo, perché è parziale: dice che c’è qualcuno, cioè “i normali”, che include e qualcuno, “i diversi”, che viene incluso. Scelgo di ragionare sulla convivenza tra le differenze”, aggiunge. Ma come si fa? “Ascoltando le esigenze di tutti e aprendo senza barriere la comunicazione a chi differente lo è davvero, ma non per questo dev’essere messo da parte. Una rivincita del “pensiero lento” che costruisce il dialogo e ti consente di generare relazioni non tossiche. Non come il “pensiero veloce” e istintivo, che ci spinge, anche involontariamente, a metterci in contrasto con l’altro. Dobbiamo avere la possibilità di riconoscere che tutti facciamo resistenza davanti al cambiamento, trovando uno strumento in più per cambiare. Ma da cosa nascono tutte queste… se non emergenze, almeno chiamiamole difficoltà? Dal fatto che la società sembra a caccia della performance, mettendo da parte le relazioni. Siamo animali sociali diventati scostanti, chiusi nella nostra individualità: è una “balcanizzazione sociale”, tutti quanti separati e uno contro l’altro.

È come se dal “villaggio globale” immaginato da Mc Luhan fossimo passati a un insieme di villette a schiera iper-personalizzate con pochi spazi comuni dove incontrarsi casualmente: abitanti sparsi che non si parlano, senza luoghi di confronto dove tutto è normato, anche il tempo libero, e in cui siamo reclusi in giardinetti senza neanche giocare e fare amicizia nel recinto di sabbia. Come si inverte questa deriva? “Affrontando le difficoltà, a partire dalla scuola e dal linguaggio. In fondo siamo gli unici animali che imparano a comunicare solo se si confrontano, infatti parliamo solo se gli altri parlano con noi: con i primi stimoli siamo in grado di pronunciare parole semplici, poi le trasformiamo in lettere, con cui costruiamo un dialogo che ci può trasportare ovunque. Ma In Italia”, commenta Vera Gheno, “tutto gioca contro, anche la politica: il covid ha dimostrato che ci preoccupiamo per la salute fisica ma ci siamo persi per strada la salute mentale. Pensiamo a quei decreti chiamati Dpcm che ci imponevano con chi trascorrere il lockdown, cioè i congiunti, e chi invece non potevamo incontrare... Rispetto all’Olanda che nei moduli per i trasferimenti consentiva di viaggiare anche solo per abbracciare un amico o un parente: la “hug person”, letteralmente”.

Il linguaggio contiene autentiche gallerie degli orrori, come parole plastificate, impoverite e svilite dalle ripetizioni e dall’abuso che se ne fa. Un caso noto è resilienza, termine della scienza dei materiali passato a indicare un carattere delle persone: ma oggi è una specie di rucola che si mette su tutto, fino a perdere il suo significato e la sua freschezza. È successo anche a inclusione o a schwa, e la stessa sorte oggi sta toccando a sostenibilità, che pure ha un ruolo chiave per i temi dell’ambiente e della società. Perché le parole sono magiche, ma anche pericolose, e come dicevamo possono ferire e guarire. Tentiamo di preservarle dalla consunzione, ricordandoci quanto sono potenti. Il linguaggio ha dei lati oscuri, ma è anche allegro. Come i neologismi, parole nuove che creiamo dal nulla o modificando altre parole, interpretando traduzioni da altre lingue, scherzando con forme e contenuti. “È un vero peccato”, sottolinea Gheno, “che l’italiano non abbia la stessa capacità dell’inglese di inventare facilmente i termini. Vorrei che usassimo di più la leggerezza, per giocare con i significati”. In maniera deliziosamente mediterranea e irridente è capitato a mansplaining, l’atteggiamento degli uomini che si sentono in diritto di spiegare alle donne – che infatti si irritano molto – cose che sanno già benissimo da sole. La traduzione “minchiarimento” è fulminante, sta avendo grande successo e non richiede alcuna spiegazione...

Con un agile salto di tema si è parlato poi di intelligenza artificiale e delle opportunità che la tecnologia digitale ci mette a disposizione per interagire con una mente virtuale che può perfino scrivere al posto nostro. “Meglio non fidarsi del tutto dell’algoritmo, che sta ancora imparando ma si evolve in fretta e da solo grazie alla velocità di calcolo ed elaborazione e al database sconfinato da cui attinge. Come è con i robot nell’industria, non vedo il rischio che possa sostituirci”, ragiona Vera Gheno: “anzi, potrebbe svolgere compiti linguistici di base”. Una cosa è certa: in futuro non basterà imparare come-fare-cosa. Vediamo già oggi che nella crescente complessità che ci circonda quello che sapevamo prima non basta più. Un esempio? Come insegnare ai giovani a usare bene i social: non solo sul piano tecnico, ma anche da quello delle relazioni, del linguaggio e del peso delle parole. E non è vero che l’uso dei social stia impoverendo la lingua italiana: i giovani, al contrario, hanno dalla loro parte a una grande ricchezza di termini, solo che non sono i nostri e li usano diversamente. La loro biblioteca è altrove, è ovunque. Tesi ripresa e confermata alla fine dell’incontro da Francesco Masini, che ha sottolineato l’importanza di capire quale sia il nostro pezzetto di responsabilità e agire: non basta aspettare che qualcun altro si muova al posto nostro.