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Paolo Gubitta
Persone, partner e territorio: solo così l’organizzazione diventa efficace

Paolo Gubitta <br>Persone, partner e territorio: solo così l’organizzazione diventa efficace

Paolo Gubitta
Persone, partner e territorio: solo così l’organizzazione diventa efficace

Da due anni ci chiediamo in che modo preparare le aziende a ripartire. Anche se il rimbalzo del Pil può illuderci che il peggio sia passato, non è detto. Si può fare di più, mettendo le persone al centro: ma davvero, non solo a parole. Non siamo tutti uguali: le imprese devono valorizzare competenze diverse e gestire i percorsi di crescita per attrarre e trattenere i talenti, integrare le generazioni e diventare inclusive. Poi occorre far spazio a clienti e fornitori per rinnovarsi e formarsi insieme. Infine bisogna aprirsi agli stakeholder e alla comunità: e se l’azienda esce dalla fabbrica, ascolta, domanda e sostiene progetti condivisi, è sulla buona strada per costruire un modello vincente di responsabilità sociale.

Testo di Stefano Tenedini

Sono passati quasi due anni da quando in pieno lockdown, per inaugurare il ciclo di Open in versione webinar, Vecomp Academy aveva ospitato Paolo Gubitta. Il tema era “come ripensare il futuro delle imprese”: ma se siamo sinceri con noi stessi dobbiamo ammettere che in quei giorni cupi e inquieti saremmo stati contenti se l’economia ce l’avesse avuto, un futuro. Gubitta, docente di Organizzazione aziendale e Imprenditorialità all’Università di Padova, aveva rassicurato sulla forza e sulla resilienza (si poteva ancora dire, prima che la politica si impossessasse di questo termine della metallurgia usurandolo e svuotandolo di senso) del tessuto imprenditoriale. Aveva detto che l’importante sarebbe stato “come” riaprire, per fare la differenza tra una rapida ripresa e una lunga recessione. E suggeriva di investire per ripensare il digitale, l'innovazione, i tempi e gli spazi del lavoro, i modelli di leadership e la misurazione delle performance. E concludeva che la pandemia nonostante tutto “potrà essere un momento decisivo per affrontare il cambiamento organizzativo”.

Una premessa necessaria per dire che mentre il Covid è ancora vivo e lotta contro di noi, il prof. Gubitta, protagonista del primo appuntamento del 2022, riparte proprio da dove ci eravamo fermati, affrontando con Francesco Masini il tema dell’organizzazione ma sotto un’ottica tanto diversa quanto essenziale: mettere le persone al centro per rilanciare le imprese. L’anno scorso il Pil è rimbalzato ben più di quanto potessimo immaginare, ma nuovi problemi si sono affacciati all’orizzonte quotidiano. Siamo ancora lì, sempre lì.

Il primo tema è la domanda che un po’ tutti si pongono: ha senso parlare di organizzazione in un contesto in cui tra pandemia, costi dell’energia, scarsità e prezzi delle materie prime si arriva a dubitare della sopravvivenza stessa delle aziende? Può sembrare una domanda retorica, ma la risposta non lo è affatto: qualunque siano il luogo, il settore merceologico o le circostanze, un’organizzazione serve sempre, perché le persone devono essere messe in grado di collaborare per dare il meglio. “In fondo chiamiamo organizzazione un insieme di strutture e comportamenti che ci aiutano a raggiungere lo scopo che ci siamo dati”. Oggi infatti per Gubitta il suo valore intrinseco è almeno pari a quello che ha sempre avuto. In questi anni di emergenze continue, anzi, si è addirittura moltiplicato.

Del resto nel mondo delle imprese organizzazione e persone sono elementi strettamente collegati: e se sosteniamo fermamente che le persone devono essere al centro dell’azione, è necessario agire in tutti i modi”, precisa, “per non lasciare che questo principio rimanga solo un artificio retorico scontato ma diventi una indicazione concreta di metodo, che può cambiare verso alle aziende”. Vediamo allora chi – e in che modo – deve essere posto al centro dell’azione, e come questo ci aiuti a capire come generare valore nell’impresa.

Al primo posto si collocano le maestranze interne, che devono essere il focus dell’attività manageriale: ma come? Ovviamente è importante valorizzarle per quello che sanno fare, e di sicuro non colpevolizzarle per quello che NON sanno (o non sanno ancora) fare. Occorre poi capire che questo atteggiamento non è solamente etico, ma è anche vantaggioso per l’azienda: infatti quando un collaboratore è davvero motivato il primo risultato è che darà il massimo, e il secondo è che sarà stimolato a colmare il gap di competenze che potrebbe eventualmente avere. Rendendo più efficiente tutta la “macchina”.

Gubitta aggiunge poi un punto centrale. E cioè che le persone, in azienda come ovunque, non sono tutte uguali. A renderle differenti è prima di tutto l’età: non quella anagrafica, ma le competenze e le esperienze, che variano in base alla formazione che in generazioni diverse possono aver ricevuto. E poi ovviamente le conoscenze, la capacità di applicarle e di trasmetterle. Tutte queste ricchezze individuali messe insieme possono essere ancora più utili in un contesto lavorativo. L’azienda deve così applicare criteri diversi nel gestire i ruoli, le opportunità e gli sviluppi. In pratica valorizzare i talenti ma anche accompagnarli nello sviluppo delle potenzialità secondo percorsi personalizzati, oppure favorire i processi naturali di scambio incrociato di competenze. Nel team c’è chi ha una capacità più tecnica, chi analitica, chi relazionale: mescolando e utilizzando al meglio queste caratteristiche dei collaboratori ci si può sorprendere vedendo che a volte i giovani possono “insegnare” ai colleghi senior. Anche questo è mentoring, solo che in apparenza sembra capovolto.

Applicando quindi i principi del marketing alla relazione con i propri collaboratori attuali e potenziali, andrebbe considerato un “value branding” per le persone: percorsi di carriera, scelte professionali e condivise per valorizzare le competenze dentro e fuori l’azienda. Si chiama “employer branding” e secondo il docente “è una scelta strategica che risponde a un principio di grande importanza in un mondo competitivo: saper attrarre, trattenere e motivare il buon capitale umano di cui c’è sempre più bisogno”. Perciò occorre costruire attraverso la comunicazione l’immagine di un luogo di lavoro dove ci sono opportunità e qualità della vita, non solo professionale. E visto che l’Italia, Nord-Est in testa, è popolata più da aziende familiari che da multinazionali, questa strategia di attrazione dei migliori talenti è ancora più fondamentale per tenere a distanza i concorrenti.

Ci sono poi altri aspetti di cui tenere conto nell’immaginare un’organizzazione adeguata a un’impresa oggi. Ad esempio l’inclusione: “Non possiamo più ignorare che un ambiente di lavoro non inclusivo, o peggio ancora discriminante, è un freno per lo sviluppo, oltre che – sul piano etico – un indicatore di modelli imprenditoriali e gestionali inaccettabili”. Meglio un approccio basato sui principi che hanno dato vita alle Teal Organization: collaborazione il più possibile tra pari, condivisione non basata su un sistema di potere, capacità di gestire in autonomia i processi. Il tutto accompagnato però da responsabilità e coordinamento. Potrebbe essere, spiega Gubitta, “un modello giusto per imparare a gestire la complessità, pur senza illudersi di poterla eliminare”.

Tornando al ragionamento iniziale su chi mettere al centro dell’organizzazione e come, al secondo posto bisognerebbe collocare i fornitori e i clienti dell’azienda, che possono fare un passo avanti e diventare partner, condividendo e aiutando a diffondere ulteriormente buone pratiche di sviluppo. Sarebbe anche una leva di formazione per le piccole imprese, che non sempre possiedono gli strumenti necessari a favorire i cambiamenti anche in una prospettiva sostenibile. E poi il grande tema degli stakeholder e della comunità locale. “Fare impresa non è soltanto creare valore per sé e per gli azionisti, ma anche sostenere il territorio”. In quali ambiti? La risposta non potrà che essere multidisciplinare, secondo i criteri ESG proposti dall’Onu: ambiente, governance, diritti, standard lavorativi... “Tutte azioni che hanno un impatto positivo sul contesto esterno: l’azienda si apre, ascolta, crea occasioni di interazione, stimola domande e raccoglie le risposte”. C’è già chi lo fa in modo strutturato (come le B.Corp e le Società Benefit), impegnandosi a sostenere i progetti e presentando i risultati ottenuti in report periodici, per confermare che non ci si impegna nella CSR per farsi belli, ma si ascolta davvero e si coinvolgono gli stakeholder. 

Numerose e approfondite le domande del pubblico online. Quali sono le competenze a rischio in questa fase? Gubitta risponde prendendo il toro per la coda invece che per le corna: “Non ci sono mestieri superati, perché chiunque, anche chi non ti immagini, puoi imparare e acquisire nuove competenze utili proprio in questo momento”, spiega con un esempio insolito: ci sono badanti che hanno compreso come interagire con i loro assistiti utilizzando i semplici comandi di assistenti vocali come Alexa. Un’altra nuova competenza, oggi estremamente utile, è imparare a fare piani di emergenza anche con dati limitati e parziali, saper prendere decisioni in fretta, cambiare idea e scusarsi se serve, comunicare i cambiamenti spiegando il perché: e anche solo questo sarebbe già di incredibile valore.

Ragionando poi sul perché certi lavori sono in cima alle classifiche, se è meglio investire su professionalità tecniche e digitali o sulle soft skill, Gubitta spiega che “mi interessa di più capire come devono e possono evolversi le professioni più tradizionali, quelle che sono già svolte da milioni di persone: infermieri e autisti, elettricisti o insegnanti, in una società che cambia sempre più in fretta”. Organizzazione, cambiamento e complessità: riguardano solo le società molto evolute o possono fare la differenza anche in contesti tradizionali? Pensiamo al Nord-Est ricco di imprese familiari di grande successo. “Anche qui si trovano numerose aziende capaci di interpretare lo spirito dei tempi, decentrando le decisioni e condividendo i processi per restare competitive. Altre invece non ci stanno riuscendo. C’è una polarizzazione tra i due estremi, ma paradossalmente proprio le imprese familiari si sono sentite più coinvolte in questo processo evolutivo e non intendono mollare, quindi si sono impegnate di più, ottenendo a volte risultati migliori”.

L’ultimo punto mette di fronte le imprese e la politica, ora che le istituzioni fanno sempre più fatica a svolgere i loro compiti. Le prime crescono e cambiano, la seconda perde colpi e non riesce a evolversi né a dare alla comunità le risposte necessarie. “Gestire il consenso è molto diverso dal gestire i processi aziendali”, ammette Gubitta. “Tanto che applicare alla politica criteri manageriali porterebbe a un rapido fallimento. Credo piuttosto ci voglia una politica intelligente, capace di valorizzare le competenze per migliorare la propria offerta, in questo guardando anche alle imprese per trarne spunti e supporti di carattere tecnico. Certo che poi la decisione deve essere comunque politica, perché un “governo dei tecnici” è per definizione provvisorio, deve durare poco. Ma per svolgere meglio il suo lavoro, la politica deve imparare a raccogliere i suggerimenti di tutta la società”.