Nathalie Tocci In un mondo di crisi permanenti la sfida del domani sarà convivere con le incertezze
Nathalie Tocci In un mondo di crisi permanenti la sfida del domani sarà convivere con le incertezze
Credevamo di vivere in una stagione di apertura e globalizzazione, di mercati indipendenti e crescente democratizzazione. Invece ci siamo trovati sommersi da crisi finanziarie, disastri ambientali, Covid, guerre e rischi di ogni natura. E la ricetta più realistica sembra una battuta: “dobbiamo farcene una ragione”. Da un’Europa forse più unita ma piena di contraddizioni alla guerra in Ucraina che è parte della nostra casa comune, dal mezzo dietrofront di un business un po’ troppo indipendente a un Covid parabola dell’incertezza planetaria. Fino all’emergenza climatica, agli scontri tra superpotenze azzoppate e all’eterno conflitto in Medio Oriente. E una domanda finale: come ci adatteremo, noi?
“Vivevamo in un mondo aperto. La globalizzazione, la democratizzazione, l’ordine liberale internazionale e l’integrazione europea erano tutte manifestazioni di un mondo pronto al futuro. Poi un po’ per volta ci siamo chiusi: la crisi finanziaria e quella migratoria, la Brexit, il nazional-populismo, la pandemia, la guerra e la rivalità Usa-Cina hanno invertito la rotta globale. E adesso? Viviamo in un mondo chiuso? O è piuttosto un mondo in cui apertura e chiusura sono destinate a convivere? Come possiamo navigare la contraddizione?”
Parole dure come la pietra e impossibili da contestare, quelle pronunciate da Francesco Masini all’inizio del nuovo incontro della stagione 2023-24 di Open, Festival della Cultura d’Impresa ideato da Vecomp per la sua Academy. L’attesissima ospite è Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto Affari Internazionali, politologa, editorialista e docente. Curriculum amplissimo con studi e frequentazioni che le permettono di dare informazioni raccolte dal vivo e di persona, invece di abbeverarsi nei salotti tv. Tocci si confronta con la geopolitica per quello che è: una scienza inesatta e in continuo divenire, un complesso sistema di pesi e contrappesi in cui ognuno ha la sua agenda e non fa quasi mai quello che ci si aspetta.
E così, dopo aver compreso con l’astrofisico il prof. Bersanelli quale sia il posto del nostro mondo dell’universo, ora proviamo a capire quale sia il nostro posto nel mondo. E quindi cosa significhi vivere nell’età dell’incertezza tutta italiana. Come ha detto Masini dando la parola a Tocci, “un esempio ce lo ha dato proprio lei, arrivando da Roma a Verona in treno in un giorno di sciopero...” E la politologa gli ha dato ragione, confermando la deriva degli ultimi anni. “Vivevamo in un mondo di viaggi, democrazie, benessere. Non all’improvviso, ma rapidamente, ci siamo ritrovati sommersi da crisi finanziarie, disastri ambientali, Covid, due guerre e altri rischi di ogni natura. Cercando di capire anche come si muove la UE”.
Insomma come si sta attrezzando l’Europa, che è il nostro “Paese allargato”? Sempre se lo sta facendo. “Ricordiamoci quando credevamo che il processo di costruzione europea fosse delineato e lineare, tra mercato unico, la virtuale cancellazione delle frontiere tra i Paesi amici e la globalizzazione”, ragiona. “Pensavamo di dover affrontare delle crisi fatte al massimo di crescita a diverse velocità, ma comunque nella stessa direzione. E questo ci rassicurava. Peccato che un po’ per volta ci rendiamo conto di quanti esempi del contrario stiano minando la nostra presunta sicurezza. Qualche esempio: un tempo per aderire alla UE un Paese candidato doveva soddisfare criteri di base economici, politici, valoriali: ma il principio si è rivelato tutt’altro che irreversibile, e l’Ungheria è qui a ricordarcelo. Oppure credevamo che la liberalizzazione politica avrebbe imitato quella economica, così abbiamo abbassato le barriere e fatto entrare la Cina nel WTO, pensando che sarebbe diventata più libera e democratica. Come vediamo non è andata così, con buona pace dell’economia che avrebbe dovuto prevalere sulla politica e sulla geo-politica”. Business is ancora business?
Un’altra botta al primato della razionalità l’ha data la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina ormai quasi due anni fa. Ebbene sì, in determinate circostanze la forza vince sulla ragione. E vedevamo l’interdipendenza dei mercati come progressiva pacificazione del mondo, o almeno in grado di mitigare gli eccessi. Anche nel 2022 sembrava vero, quando la UE ha fatto fronte sull’energia fermando i rincari irrazionali del gas di Putin. Invece tutte queste crisi, una volta iniziate, non si sono più fermate. Se ne sono anzi aggiunte altre. La stessa globalizzazione è diventata un problema, perché non tutti crescono a pari velocità e si creano disuguaglianze, squilibri sociali e ambientali, dissesti finanziari. Mettiamoci pure l’euro scetticismo col suo contorno di populismo e nazionalismo, o il Covid stesso che è la rappresentazione di una globalizzazione delle incertezze, che intacca salute e mercati.
“E sopra a tutte le crisi ci sono poi le guerre, che aggravano la sensazione di instabilità. Per tornare all’esempio dell’energia, prima dell’invasione dell’Ucraina sembrava impossibile che la Russia potesse chiudere i rubinetti, dicevamo che sarebbe stato irrazionale: infatti Putin non è matto, ha semplicemente un’altra visione, vuole ricreare un impero russo. La stessa cosa sta succedendo in questi giorni in Medio Oriente, dove nel giro di pochi mesi si è passati da uno scenario di accordi economici e progressiva pacificazione agli attacchi di Hamas e all’assedio di Gaza. Perché ciascuno segue la propria agenda”, dice Tocci.
Un mondo così contraddittorio non può essere affrontato con soluzioni definitive: però va accettato, per imparare a convivere con una situazione in costante mutamento, aperture e chiusure di uno scenario non più unipolare e neanche a due poli ma multipolare, con pesi, contrappesi e spinte ovunque che condizionano e scalfiscono la nostra quotidianità. Una stagione di crisi e di guerre e proprio quando sarebbe più necessario cooperare: per la crisi climatica, o per lavorare a una ripresa economica, ricordando che la competizione tra le potenze per il predominio economico e politico è una costante invariabile. La Cina e gli Stati Uniti ce lo stanno dimostrando in queste settimane, con tentativi di mediazione e ammorbidimento del confronto sul controllo dei mercati, anche se Taiwan è sempre sullo sfondo. Senza contare quelli che giurano di non volersi schierare e di sognare un mondo alternativo, come i Brics: il Brasile, l’India, il Sudafrica, con strani amici come Russia e Cina. O la Turchia e i sauditi, che stanno solo dalla propria parte, quella degli interessi nazionali.
Chi questi interessi li ha ben chiari, come Putin, non si ferma con la diplomazia e va avanti per la propria strada fino a quando non viene stoppato in altri modi. Torniamo a Kyiv per capirlo meglio: l’Occidente non ha ancora una strategia per vincere la guerra in Ucraina e punta a non perderla. Solo che per la Russia è un conflitto imperiale, non come i Balcani dove era uno scontro etnico ed è finito, si fa per dire, in uno stallo, una zona grigia. “Ora è chiaro che a Putin”, sottolinea Nathalie Tocci, “non sarebbe bastato prendersi il Donbass per tenerselo, se mai ci fosse riuscito: sarebbe andato avanti a più riprese fino alla fine. Il vantaggio delle dittature è di essere resilienti, di sopportare il dolore e le privazioni meglio di quanto sappiano fare le democrazie. E infatti il Cremlino ci accusa è di essere dei deboli pronti a mollare. Ma Jean Monnet”, dice citando un padre fondatore del mercato comune, “sosteneva che l’Europa sarà la somma delle soluzioni alle crisi che dovrà affrontare. Forse è questa la speranza: che nonostante dubbi e divisioni la UE non smetterà di difendere l’Ucraina. Perché la consideriamo parte della nostra casa comune”.
Discorso diverso per il Medio Oriente. Quella della striscia di Gaza è una storia lunghissima e mai risolta, perché mai davvero affrontata. Un tempo giurisdizione inglese alla fine della Prima Guerra Mondiale con la caduta dell’impero Ottomano, quella parte di Israele che ci è nota come Palestina venne spezzettata tra Egitto, Giordania e Siria. Lo shock della Shoah ha riportato gli ebrei in quelle terre, un groviglio da cui viene il caos che dura da 75 anni. Però, a differenza della Cisgiordania in cui si trova anche Gerusalemme, Gaza conta poco sul piano storico e religioso. Col tempo Israele se n’è disinteressata, lasciando porte aperte ad Hamas, che ha vinto le elezioni contro Fatah e dal 2006 governa di fatto la Striscia.
Israele intanto si è sempre più spostata a destra. I governi Netanyahu, che trattano sia con Hamas che con l’Autorità Nazionale Palestinese, hanno abbassato la guardia e la vigilanza, in attesa che la situazione si normalizzasse. Ma Hamas non s’è fatta mettere da parte: con l’aggressione ai civili nei kibbutz ha ripreso la scena – con le conseguenze che oggi nessuno può prevedere – degli scontri mediorientali: ha riacceso una guerra aperta ma senza fine, senza tregua né pietà contro l’eterno nemico Israele, che si difende ma non può vincere. Uno stallo che coinvolge le terre della Bibbia ma getta nuove ombre su tutto il mondo.
È evidente, aggiunge Tocci, “che così non può continuare, ma per motivi diversi entrambi gli schieramenti non vorrebbero la fine della guerra. Israele preferirebbe i palestinesi fuori da Gaza, meglio ancora in Egitto: per questo continua a erodere gli spazi di Hamas ma non è probabile che possa sradicarlo del tutto dal territorio. D’altra parte ai terroristi interessa tenere alta la tensione e ottenere visibilità, contando sul sostegno ideologico diffuso nel mondo e sulla stanchezza del supporto occidentale a Israele. Netanyahu politicamente è finito, sconfitto dagli errori del suo governo, dall’incapacità dell’intelligence di anticipare l’attacco del 7 ottobre e dalle scelte tattiche che non sembrano portare risultati decisivi. Il conflitto ormai è già oltre la striscia di Gaza: sta diventando un nuovo capitolo della guerra tra Israele e i palestinesi, che ha segnato metà del Novecento e gli anni dal 2000 a oggi”.
In questo contesto instabile gli Stati Uniti cercano di mitigare i possibili pesanti effetti sulla sicurezza internazionale e sono attenti alla volontà di una larga parte della loro società che difende Israele. Ma si stanno muovendo con più cautela che in passato: i nuovi americani, spesso di origini africane, orientali o ispaniche, non credono in un’alleanza a oltranza con Tel Aviv. Nonostante Joe Biden, per il quale lo stato ebraico è da sempre un pilastro della stabilità mondiale, c’è una ribellione non più solo strisciante ma esplicita che si fa largo perfino all’interno delle istituzioni, negli Stati Uniti e in Europa. Picconando così un altro degli snodi della politica estera occidentale per come si è configurata da decenni.
La situazione resta fluida anche in Estremo Oriente, dove in un recente incontro Biden e Xi Jinping sono apparsi pronti ad abbassare i toni e quasi desiderosi di dialogare: se non altro sui canali militari, per disinnescare incidenti virtualmente devastanti rispetto a Taiwan. Ad agitare le acque davanti a Pechino e a spingere Xi a cercare consensi in casa e all’estero, è l’economia che continua a non tirare e appanna la sua immagine di esperto timoniere. Il fantasma degli Stati Uniti sono invece le elezioni: nel 2024 Biden (o un altro Dem) dovrà di nuovo vedersela con Donald Trump e con un risultato tutt’altro che garantito. E proprio la sfida elettorale di novembre in questo momento è uno degli interrogativi più pressanti su scala globale. Se Trump fosse essere rieletto le scosse si sentirebbero in tutto il mondo: sia per i timori su una tenuta democratica degli Stati Uniti, visti i programmi del tycoon per garantirsi il controllo del potere, che per la sua voglia di isolazionismo e gli inquietanti alti e bassi del suo rapporto con Putin, che fanno temere per il futuro dell’Ucraina.
In conclusione il direttore dell’Istituto Affari Internazionali tocca un tema centrale per tutti gli scacchieri geopolitici esaminati fin qui: l’emergenza climatica tornata in primo piano in questi giorni alla Cop 28 di Dubai ha visto riemergere con forza i temi ambientali, con tutti i nodi mai venuti davvero al pettine. In attesa di decisioni concrete c’è una lettura positiva, sia pure limitata. “L’Europa ha saputo utilizzare le ultime crisi, da quella militare in Ucraina alla scarsità di gas con il conseguente aumento di prezzo, per darsi una direzione di marcia e accelerare il passo. La guerra ha costretto la UE a stringersi in difesa dei propri principi e valori, concordando sanzioni e mosse diplomatiche e vigilando sul supporto militare. E il lancio di nuove iniziative “green” per ridurre le emissioni e accelerare sugli obiettivi, più ingenti finanziamenti messi in campo per sostenere la transizione, sono strumenti capaci di favorire il cambiamento. L’arrivo di altre crisi potrebbe rallentare e complicare l’azione”, conclude Nathalie Tocci. “Ma fino alle elezioni europee del 2024 la situazione sarà fluida”.
La precarietà quindi si aggiunge all’insicurezza. Ma in fondo gli incontri di Open hanno reso evidente tante volte che nel mondo in cui viviamo, oggi l’emergenza è prepotentemente …emersa. Forse la condizione più stabile del nostro presente è davvero quest’incertezza.