Newsletter
v-white.svg

Giuseppe Morici
Guidare un’impresa e chi ci lavora: manager (e imprenditori) nel difficile compito di crescere restando brave persone

Giuseppe Morici <br>Guidare un’impresa e chi ci lavora: manager (e imprenditori) nel difficile compito di crescere restando brave persone

Giuseppe Morici
Guidare un’impresa e chi ci lavora: manager (e imprenditori) nel difficile compito di crescere restando brave persone

Le aziende sono soggetti sociali con responsabilità economica, non il contrario. La visione e l’organizzazione, la produzione, lo slalom in mezzo agli imprevisti sono il pane quotidiano di chi crea e sviluppa l’impresa e di chi viene chiamato a tradurre il sogno in una realtà. Per il bene dei dipendenti, dei clienti e anche del territorio bisogna dividersi bene i compiti: pensare e fare sono le due facce di un mestiere affascinante ma che oggi si muove in un mondo più complesso che mai. L’azienda come famiglia? Bella rappresentazione, ma che rischia di indurre in errore: pressioni fortissime, ruoli da reinventare, scelte od obblighi per i figli (quelli veri o virtuali, i colleghi e collaboratori), l’immagine di sé che va in conflitto con quella professionale… Tempi difficili, in cui capita di sentirsi alienati e ingabbiati come in fabbrica nel Novecento. Se ne esce evolvendosi, cambiando ruoli, facendo domande nuove. E magari tornando al contado: sì.

Testo di Stefano Tenedini

Ha lasciato cadere sul pubblico così quasi per caso, con leggerezza, la frase più importante e pesante della serata. “Le aziende sono soggetti sociali con una responsabilità economica, e non soggetti economici con una responsabilità sociale”. Come dire che guidare un’impresa è prima di tutto un impegno umano, e solo dopo organizzativo: in realtà quindi non devi guidare l’azienda, ma le persone che ci lavorano e la costruiscono ogni giorno. Sarebbe stato sufficiente anche solo questo passaggio a soddisfare gli affezionati di Open - Il Festival della Cultura d’Impresa presenti all’incontro con Giuseppe Morici condotto da Francesco Masini in Vecomp Academy, ricordando che il tema della quinta edizione è “Alzare lo sguardo”.

Morici è un solido manager (attualmente vicepresidente del gruppo Feltrinelli), consulente di marketing e di leadership. Autore di diversi libri, tra cui Fare marketing rimanendo brave persone: etica e poetica del mestiere più discusso del mondo; ma anche Fare i manager rimanendo brave persone; Leader ma non troppo; Non solo soldi: parole e storie per capire l’economia; Arte e fatica di guidare un’azienda. E il prossimo in uscita: Crescere è una cosa da grandi: perché le intenzioni di un’azienda contano più delle sue dimensioni. Ha insomma la visione adatta per spiegare come si sta in un ruolo chiave quando le imprese cambiano così rapidamente, tanto da non potersi più limitare a gestirne solo mercati e bilancio.

Ma per Morici questo mestiere era un traguardo sognato? “No, non volevo fare il manager. È stato un caso, come capita alla maggior parte delle persone. Io volevo fare il giornalista, o l’assistente parlamentare, il professore universitario. Insomma, volevo fare un sacco di cose. Pur non essendo sportivo, il mio percorso professionale è stato come fare rafting, sapendo però che alla fine l’acqua non la governi tu. Quindi direi che sono finito a fare il manager perché in realtà cercavo un lavoro, e quando l’ho trovato ho cercato di divertirmi”.

Il viaggio verso la stanza dei bottoni delle aziende comincia fin dalla selezione del personale. Contano le domande o le risposte? Ovviamente entrambe, ma le risposte non servono tanto per i contenuti, quanto per come vengono date dal candidato: ci dovrebbe interessare quale percorso ha seguito per arrivare a confrontarsi col selezionatore o il direttore del personale.  Come facciamo ad assumere le persone giuste, quelle che si inseriscono bene in azienda portando il loro valore? Morici lo spiega in un paragone rubato all’automobilismo: le figure migliori sono quelle che “tengono anche in curva”. I dirigenti, gli impiegati che sanno guidare bene ma solo in rettilineo? Saranno anche dei geni nel loro lavoro, ma… Appunto, mah.

“Quando vai a seguire un corso di guida, ti insegnano che le cose importanti sono tre: tenere sempre lo sguardo “alto” alla strada che percorri, e infatti poi scopri che sarà utile anche nelle aziende; guardare bene il punto dove la strada sparisce dietro la curva, perché indica che direzione dovrai prendere subito dopo; e capire che il momento di accelerare è lì, in quel punto esatto. Ma se non puoi o non ci riesci, è il momento di passare il volante a un altro”.

Una volta scelto il manager adatto bisogna trovare quella che i ciclisti chiamano “la pedalata giusta”, che consente di correre insieme in gruppo senza sprecare energia o correre rischi. In sella, per arrivare alla volata, ci sono l’imprenditore e il suo manager, ed è fondamentale che entrambi condividano la stessa visione e il modo di essere.  Ma in Italia c’è spesso un capitalismo di tipo familiare, e non è facile capire dove finiscono le responsabilità dell’uno e iniziano quelle dell’altro. Dipende dalle vocazioni: se un imprenditore segue la sua visione e il manager si occupa dell’organizzazione, per trasformare la visione in realtà e prodotti, tutto funziona a meraviglia. Ma non è sempre così: a volte imprenditori e dirigenti hanno gli stessi ruoli, o qualcuno resta scoperto. Due visioni da sole non producono, e il lavoro ben organizzato ma senza una visione è altrettanto futile. La realtà è che non c’è una risposta univoca, eppure serve: se la squadra non riesce a integrarsi, le cose si mettono male.

“In Italia poi abbiamo un altro problema: la famiglia, che qui da noi è molto sopravvalutata. Sì, certo, funziona bene in un sacco di campi: garantisce ai figli la cura, il sostegno, l’affetto... ma è anche un luogo in cui nascono e si sviluppano una serie di pressioni e di op–pressioni che potenzialmente rendono la vita familiare un dramma. Se questo scenario dirompente lo riportate all’azienda applicandolo al rapporto tra imprenditore-padre e manager-figlio, se non addirittura ai figli veri e propri dell’imprenditore, le cose si complicano ancora di più. Un problema, anzi una patologia da cui si fatica a uscire e rischia di perpetuarsi a lungo. Naturalmente non faccio l’elogio della non-famiglia all’americana, da cui il figlio scompare appena diventa maggiorenne… Ma è un fatto che noi spesso esageriamo in senso opposto, e molti nelle aziende avranno vissuto o assistito a situazioni analoghe”.

Morici inserisce poi la possibilità di rimanere brave persone anche facendo marketing, uno dei suoi cavalli di battaglia. A questo aspetto sommiamo che l’Italia, nonostante la ricchezza di aziende grandi e piccole, è pervasa da uno spirito tendenzialmente anti-imprenditoriale. Perché? Continuiamo a non ritenere il marketing una parte del processo industriale, ma un male e un inganno a prescindere. Nel 1950 le imprese producevano lavatrici e facevano utili. Guadagnavano bene. Ma attenzione, dice Morici: oltre a generare profitto, pensiamo che stavano contribuendo anche allo sviluppo sociale. Ad esempio consentendo alle donne di cominciare a immaginarsi in un ruolo diverso dalle lavandaie. Oggi invece si compra fin troppo, quindi al marketing tocca vendere anche prodotti di cui non abbiamo bisogno. Tutto questo consumismo ci danneggia: per essere sostenibili dovremmo produrre molto meno.

E infatti la domanda che bersaglia i dirigenti è: perché fate marketing? Ci serve ancora? Di qui la difficoltà di far coincidere l’immagine di bravo manager e la sensibilità personale in una professione ormai in conflitto con il bisogno di rimanere brave persone. Ragionamento che non agita solo il marketing. La realtà è che i manager sono umani e fanno vite normali, vanno a fare la spesa e accompagnano i figli a scuola. Ed esattamente come gli operai sono alienati, così li definiva Marx, perché nel ruolo che rivestono sono lontanissimi da quello che è il loro prodotto, il lavoro vero. Il problema è che in azienda molti, non solo i manager ma anche gli impiegati e gli operai stessi, fanno cose stupide e inutili. Non perché lo siano loro, ma perché è l’organizzazione delle imprese a essere vecchia ormai di un secolo. Chi lo capisce e può permetterselo, come iniziano a fare sempre di più i giovani, se ne va: non va necessariamente all’estero o a fare il pastore, ma dice di no a questo modello sorpassato. E comunque tutti si sentono ingabbiati in una struttura che andrebbe ripensata.

“Non voglio dire che le imprese vadano abbattute e sostituite con non si sa cosa”, chiarisce Morici. “Anche perché i bravi imprenditori sono una ricchezza per le nazioni, e con tutti i suoi difetti l’Italia non fa eccezione. Sono un valore perché il manager sa organizzare, ma non ha il dono di sviluppare una visione e farla diventare azienda, benessere, ricchezza e lavoro. A parte casi molto rari come Marchionne, che era tutto questo. Un’azienda però non cresce solo come dimensioni, ma come bisogno di competenze: l’imprenditore deve occuparsi di troppe cose, più di quante poteva seguire direttamente quando l’aveva lanciata. Ricordiamo che perfino Steve Jobs aveva dovuto lasciare Apple dopo averla creata…”

Alle aziende succede ciò che capita ai genitori con i figli: non puoi esercitare la leadership (o l’educazione) dei 5 anni anche quando arrivano a 20. Se fatturi 5 miliardi, i modelli che applicavi a 5 milioni non funzionano più. Ci sono imprenditori così focalizzati sull’oggi che non possono – non vogliono – guardare al futuro. Arriva il momento in cui devono affidare delle deleghe, perché è umano che l’efficienza di quando facevano tutto da soli sia calata.

L’azienda si nutre di futuro, deve continuare a rimanere un passo avanti per soddisfare i bisogni della sua famiglia allargata: i clienti, i dipendenti, la società”, aggiunge Morici. “Il modello industriale ci serve, e ci mancherebbe altro: ma va reso più equo. Come? Facendo entrare in gioco la cultura, facendoci domande sul contesto più ampio, non solo quello che succede all’interno dei cancelli della fabbrica. Le aziende che ci riescono – ce ne sono tante, è un fiume carsico di evoluzione che percorre il Paese – si prendono cura del territorio, come in passato facevano i signori feudali col loro contado. Ecco perché il marketing andrebbe insegnato nelle facoltà di Psicologia e Sociologia, non di Economia! Perché”, e qui sgancia la citazione che abbiamo anticipato in apertura, “l’azienda è un soggetto sociale che ha responsabilità economiche, e non il suo contrario come siamo abituati a credere: perché contribuisce alla società generando valore economico”.

Che si parli di aziende o famiglia, la responsabilità spetta comunque agli imprenditori e ai padri. Che non sono sempre grandi maestri capaci di trasmettere le loro competenze. O, al contrario, sbagliano per troppo amore: vogliono essere bravi genitori, dividono l’azienda in parti uguali ma con pessimi risultati, senza fare il bene né dei figli né dell’impresa. Che, lo sottolineiamo, non è sua e va preservata per la società anche dagli errori dei titolari. No al 50-50 ai due figli, o un terzo a testa se ce ne sono tre: a un certo punto ne va scelto uno, il migliore, quello capace di conservare e di far crescere l’impresa. Alternative ce ne sono: cedere al miglior offerente, creare un trust vigilato da consiglieri esterni, vendere tutto a un fondo... senza contare che i primi a essere felici, potrebbero addirittura essere proprio i figli, sollevati dalla responsabilità della gestione e liberi di seguire le proprie inclinazioni.

Avviandosi alla conclusione Morici si dice fiducioso del futuro dell’Italia, perché “qualcosa cambierà”, accelerando la velocità dell’evoluzione. Non è questione di dimensioni, anzi: se sei piccolo puoi comunque farti grandi domande e avere una visione di sviluppo. Mentre un grande gruppo che va avanti per inerzia, bloccato, coi paraocchi, non si ricorderà neanche come e perché è diventato così grande”. Per finire c’è un amichevole consiglio per i colleghi manager: “Anche loro non sempre accettano di delegare e di mollare la presa. Ma è molto importante imparare a far crescere chi dovrà prendere il loro posto. Magari potrebbero continuare a lavorare in altri ruoli, o un gradino più in basso, o facendo un passo di fianco. Credo ritroverebbero anche la voglia di tornare operativi. Insomma, di lavorare.