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Francesco Costa – America dai mille volti: superpotenza, eccessi e prospettive di un paese sempre più “normale”

Francesco Costa – America dai mille volti: superpotenza, eccessi e prospettive di un paese sempre più “normale”

Francesco Costa – America dai mille volti: superpotenza, eccessi e prospettive di un paese sempre più “normale”

 di Stefano Tenedini

A poco più di un mese da un voto che sarà un “lascia o raddoppia” per Trump, vediamo come stanno cambiando politica e società, territorio e visione nei 50 Stati. Gli americani si stanno italianizzando, perdono concretezza e rigore che ritenevamo scontati. In attesa del 2024, i partiti sono in mano alle personalità dei candidati, sale la rabbia delle minoranze (che non sono quasi più tali) e le persone traslocano in cerca di stabilità e benessere. E l’Europa sta a guardare.

22/09/2020

Un’America, 50 Stati diversi tra loro come una foresta dal deserto, infiniti modi per essere americani: 330 milioni circa, secondo i dati più aggiornati. Una nazione che è anche la più potente fra tutte le superpotenze, e questo in definitiva è il motivo per cui nessuno di noi può permettersi di ignorarla. Né l’Europa, né la Cina rampante, né una Russia declinante, e neanche noi microbi italiani. Di America si parla, si legge e si ascolta ogni giorno. Crediamo di sapere già tutto, ma spesso facciamo un sacco di confusione. Per capirla e per navigarla abbiamo bisogno di mappe e di bussole, meglio ancora di un marinaio esperto che l’abbia percorsa in lungo e in largo. Da costa a costa, verrebbe da dire: come Francesco Costa.
Giornalista, vicedirettore del giornale online Il Post, 36 anni, Costa è il primo protagonista della stagione 2020-21 di #Open in Vecomp Academy, che riparte giovedì 24 settembre alle 19 con un evento metà in presenza e metà online. A poco più di un mese dalle elezioni che per Trump saranno un classico “lascia o raddoppia”, la politica occuperà senz’altro una parte importante dell’incontro, ma Costa potrà anche raccontare con infiniti esempi come gli Stati Uniti stiano cambiando sotto i nostri occhi. Di esempi ne presenta un’infinità nel suo libro “Questa è l’America”, e li racconta arricchiti dall’attualità su “Da Costa a Costa”, un progetto giornalistico multimediale creato con una newsletter e un podcast dedicati alla politica e alla cultura americana. Nell’attesa di ascoltarlo a #Open gli abbiamo chiesto di parlarci della “sua” America ma anche dei contraccolpi politico-sociali che partendo dalla Casa Bianca arriveranno molto presto a farsi sentire anche in Europa e in Italia.

A proposito: non ti pare che tra politica e un crescente pressapochismo gli Stati Uniti si stiano un po’ “italianizzando”? E non vuole essere un complimento...
È vero. A lungo noi abbiamo guardato all’America come un laboratorio che anticipava quello che sarebbe successo in Italia. In politica abbiamo visto la personalizzazione dei partiti e i candidati “promossi” come prodotti, o il ruolo della televisione. Pensavamo che Berlusconi avesse innovato la comunicazione, ma lui si ispirava alla politica americana. Noi li abbiamo imitati, ma loro hanno imitato noi ...andando anche oltre. Hanno vissuto una stagione di rabbia e di ribellione contro l’establishment, con la gente che considera destra e sinistra dei complici in un sistema corrotto. Trump ha lanciato un’Opa ostile sul partito Repubblicano e ne ha distrutto la tradizione moderata. Politica a parte, da un po’ imitano anche i peggiori dei nostri difetti. Prendiamo lo scandalo di Boeing: i suoi 737-Max sono caduti per colpa di un software fatto male che nessuno ha controllato. Una negligenza così poco americana che ci sorprende e che spaventa anche loro. E se succedesse anche per il vaccino anti-Covid? La politica spinge per accelerare i tempi, ma se facessero troppo in fretta sarebbe sicuro? E vai di complotti... Che deriva inaspettata, questo buttarsi via, questa perdita di rigore, in un Paese che badava alla concretezza. Anche in questo possiamo leggere lo smarrimento di un Paese che era e si vedeva speciale ma che si scopre ogni giorno più normale.

Anche gli Stati cambiano: alcuni crescono, altri si impoveriscono. Si trasloca per arricchirsi o per sopravvivere. Come sarà - e dove abiterà - l’America di domani?
Pareva che nel giro di una generazione il 70% degli americani sarebbero andati a vivere nel 30% degli Stati: aree urbane accoglienti, avanzate e dinamiche. La pandemia ha cambiato la prospettiva e il mercato immobiliare con i suoi prezzi ingiustificati ha fatto il resto. Ma non è detto. Le persone seguono logiche sociali e personali: per dire, chi sta a New York non ci abita perché è comoda, anzi: ma perché ci abitano il mondo, la cultura, le occasioni. Il virus però è una variabile che sta condizionando tutto il resto, dall’economia ai trasferimenti. Dei pezzi di Stati Uniti sono già attrezzati per il futuro: sono quelli che hanno le università di richiamo, che attraggono i professionisti dell’innovazione, che contano su giovani di etnie spesso variegate. Se dovessi puntare su un’area in crescita? Il Sud Ovest è il più avanzato, e anche il Sud Est, che si sta sviluppando dal North Carolina alla Georgia e alla Louisiana.

L’America non è una, ce n’è un catalogo. Uscendo dai riferimenti di attualità, qual è la tua preferita, e per quali motivi?
Rispondere per me è complicatissimo. Prima di tutto devo sforzarmi di non rispondere New York, perché è una città che con le ovvie differenze è molto simile alle nostre. Nel senso che “funziona” come una città, ci sono quartieri residenziali, c’è la metropolitana, zone dove si lavora, supermercati, parchi. Ed è davvero il centro del mondo, non è solo un’immagine del cinema. Ma in verità gli Stati Uniti, quelli veri, sono altrove. Gli americani reali non vivono a Manhattan. A me, ad esempio, piacerebbe vivere nel Texas, magari ad Austin, dove oltre a uno spettacolare contesto ambientale ci sono impensabili ricchezze culturali.

Trascuriamo chi vincerà queste elezioni e proiettiamoci nel 2024. Te la senti di ipotizzare chi potrebbero essere gli sfidanti tra democratici e repubblicani?
Sì, anche se qui siamo alla fantascienza ... Consideriamo che i partiti non fanno politica ma girano intorno alle persone. L’apparato non elabora: segue le leadership straordinarie che a volte emergono, come Obama e Kennedy. I democratici in effetti da un po’ sembrano più seguire l’onda che crearla, ma Kamala Harris, che Biden vinca o no, resta la candidata ideale. Oppure un’altra donna, Alexandria Ocasio-Cortez, pronta a diventare per la sinistra quello che finora è stato Bernie Sanders. Per i repubblicani la faccenda è più aperta: non credo che vogliano rinnegare Trump, visto che la base elettorale è con lui. E non è detto che un futuro candidato non possa venire proprio da casa Trump: Donald jr. e Ivanka, il primo amato dalla base mentre lei è il volto presentabile, crede nei diritti delle donne e delle minoranze, senza smettere di sostenere il padre. Sempre in campo repubblicano non trascurerei Tom Cotton, senatore, giovane esponente dell’ala radicale ma abituato a muoversi a Washington, e la ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley. E c’è sempre l’esperto vicepresidente Mike Pence.

Il tema razziale è esploso occupando da mesi la scena elettorale: c’è il rischio che possa scappare di mano, incidere sulle elezioni e sulla società?
È vero che le proteste razziali sono una costante ricorrente negli Stati Uniti, ma quest’anno si sono aggiunte alla scadenza elettorale e al dramma della pandemia. Ma la realtà è che gli Stati Uniti sono un Paese sempre meno bianco e il problema razziale è talmente legato alla vita sociale che se ne parlerà sempre più, anche se vincesse Biden, che magari cercherebbe di calmare gli animi invece di buttare benzina sul fuoco come fa Trump. Gli afroamericani, i latini e gli asiatici sempre meno disposti a sopportare le discriminazioni, e anche le aziende guardano a questi gruppi etnici sempre più come a potenziali consumatori. Non mi aspetto una resa dei conti, ma sicuramente una maggiore presenza del tema. Anche se non c’è più una segregazione visibile e le etnie si mescolano più che in passato, il colore della pelle è ancora un ostacolo per chi rimane un diverso. Vedo piuttosto il rischio che le varie etnie si chiudano nelle proprie identità, rinuncino a una cultura mescolata e quindi forte e condivisa.

Chiudiamo guardando all’Europa. L’alleanza è meno stretta nel dopo guerra fredda, gli interessi economici sono spesso opposti, non si condivide la politica globale.
Non c’è dubbio, ma credo che questo allentamento dei legami dipenda più dall’Europa che dagli Stati Uniti. L’America oggi preferisce intrattenere relazioni con i singoli Paesi invece che con l’Europa come Unione. In parte perché non crede al progetto europeo, sicuramente perché ritiene di potersi avvantaggiare trattando con gli Stati europei da soli. Il problema è che noi glielo permettiamo perché ci muoviamo in ordine sparso e contraddittorio. Penso a Cina, Libia, rifugiati... e senza visione europea comune, gli Stati Uniti si infiltrano del vuoto politico. La realtà è che Europa e America devono reimparare a essere alleati: ma per scelta, non più per obbligo, perché quella storia là è finita. È un segnale che l’Unione deve cogliere: se resteremo così poco rilevanti, se non faremo valere il nostro peso anche economico, non saremo mai un continente, ma solo una pedina.