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Federico Fubini
Globalizzazione fragile, squilibri, crisi e virus. Tante sfide e una risposta: agire subito

Federico Fubini <br> Globalizzazione fragile, squilibri, crisi e virus. Tante sfide e una risposta: agire subito

Federico Fubini
Globalizzazione fragile, squilibri, crisi e virus. Tante sfide e una risposta: agire subito

 di Stefano Tenedini

Credevamo di essere la generazione più fortunata, però siamo intrappolati su un vulcano che mette a rischio il nostro futuro. Del mercato globale, spiega il vicedirettore del Corriere della Sera, occorre prendere i vantaggi ed evitare gli eccessi, come la perdita dei diritti politici e civili. A dominare l’agenda c’è la Cina, che vuol prendere il controllo dei commerci senza dipendere da nessuno: con Pechino dovranno confrontarsi sia Biden che l’Europa. E una debole Italia.

17/11/2020
Come siamo potuti diventare così fragili? Credevamo di essere la generazione più fortunata della storia, e commerciare o viaggiare ovunque nel mondo sembrava nostro diritto. Invece miliardi di donne e uomini – italiani inclusi – sono intrappolati in una catastrofe. Possiamo dirci che è malasorte, o seguire il filo che corre lungo gli ultimi vent’anni, dall’11 settembre delle Torri gemelle alla crisi del 2008 nata in una Wall Street fuori dalla realtà, e a un oggi in cui siamo preda del virus misterioso che viene dalla Cina. Il mondo globalizzato è in tensione, tanto che ogni urto si ripercuote ovunque. Un sistema creato in nome dell’efficienza si rivela vulnerabile, quel che era nato in nome delle libertà genera squilibri nei quali la democrazia arretra. Eppure chi anticipa i pericoli viene ignorato: non siamo capaci di immaginare questi scarti improvvisi. Dovremmo chiederci se il prossimo rischio sarà un disastro ambientale o un attacco terroristico al cloud. Di sicuro dobbiamo sviluppare correttivi che ci proteggano dagli eccessi della globalizzazione. E possiamo farlo, con una società meno diseguale.
 
Reddito, istruzione, welfare: per rispondere agli choc ci occorrono società meno diseguali
È la sintesi realistica e inquietante su cui si basa “Sul vulcano. Come riprenderci il futuro in questa globalizzazione fragile”, il libro appena pubblicato da Federico Fubini, vicedirettore del Corriere della Sera. Su questi temi e su altri spunti politici, economici e sociali di stretta attualità abbiamo raccolto le riflessioni del giornalista fiorentino, che giovedì 19 novembre sarà ospite del webinar di Smart #Open e risponderà alle domande di Francesco Masini.
Il vulcano di cui scrive Fubini è quindi quello su cui vive l’umanità nella globalizzazione. “C’è un vuoto culturale tra pauperismo ostile alla modernità e accettazione acritica di qualunque cosa porti la globalizzazione”. La sua opinione è che andrebbero evitati entrambi, e che a noi tocca eliminarne gli eccessi salvandone i benefici. Una visione rafforzata dalla pandemia, che “ci obbliga a prendere atto che la globalizzazione è un corpo potente ma privo degli anticorpi necessari, e così strettamente interconnesso da renderci più fragili e vulnerabili di quanto sembri”. E secondo Fubini ai grandi choc di questi anni sanno rispondere meglio le società meno diseguali, che si parli di redditi, di istruzione o di accesso al welfare. E invece sotto il vulcano le diseguaglianze crescono. Non soltanto nei Paesi ricchi, dove sono ormai radicate nella struttura dell’economia e contribuiscono a paradossi politici come l’elezione di Trump o la Brexit. Neanche solo nei Paesi poveri: ci sono anche nei Paesi di mezzo, nazioni che crediamo premiate dal mercato, con redditi tra i 10 e i 20 mila dollari (come l’Italia nel 1970): Albania, Brasile, Bulgaria, Egitto, Turchia, Sudafrica e ovviamente Cina. Nonostante le promesse dei teorici della globalizzazione, ovunque vi sono meno libertà politiche e civili.
 
I quattro pilastri che stanno salvando (e ingessando) l’economia e la società italiana
Di fronte a un virus ormai endemico, l’Italia continua a inseguire i numeri ma non dimostra di avere una strategia. Istruzione da casa, trasporti pubblici carenti, sanità sotto pressione e disposizioni una dopo l’altra. Dopo il primo lockdown, dice Fubini, l’Italia ha avuto sei mesi per prepararsi e ha fallito, “in una cascata di scarico di responsabilità tra amministrazioni centrali e locali giù fino ai livelli più bassi: un sistema istituzionale che fatica a stare al passo dell’emergenza”. In attesa che la curva dei contagi si abbassi o che si torni a un lockdown generalizzato, intanto sul piano economico il virus nella seconda ondata colpisce meno che nella seconda, riguarda più i servizi dell’industria e danneggia più chi ha meno competenze e meno chi è specializzato. Milioni di imprese si sono strutturate per aggirare alcuni ostacoli: il lavoro da casa è più organizzato ed efficiente, e le chiusure per regioni decise dal governo puntano a preservare l’economia, seppur cercando di contenere il virus. E il diverso impatto sull’economia si nota: dopo il parziale rimbalzo dell’estate, l’attività cede ancora ma senza crollare. Tutta l’Europa è in recessione, ma almeno non è in ibernazione. Ma non siamo al riparo: la guardia (sanitaria, sociale, economica) deve restare alta, soprattutto in Italia, fino a quando non sapremo che le misure sono servite davvero a frenare la pandemia.
Nessuno sa con precisione come sarà utilizzato un solo euro dei 209 miliardi di fondi di Next Generation Eu per l’Italia. Ed è comprensibile, visto che appetiti si scatenano: però anche la troppa riservatezza costa, quando bisogna investire in innovazione per ricostruire il motore dell’economia e capire quale futuro ci serve disperatamente. Non possiamo permetterci di sprecare questa chance. È ormai chiaro che per battere il Covid-19 ci vorrà il vaccino, mentre l’economia vive un tempo sospeso dietro il quale c’è solo una profonda precarietà. Mentre per tutto il 2021 la Bce finanzierà il debito astronomico che ci servirà a sopravvivere, però, politica, imprese e sindacati dovrebbero ripensare la struttura a quattro pilastri che regge il gioco. Fubini chiama così la cassa integrazione di massa, il blocco dei licenziamenti, tutte le garanzie pubbliche sui crediti bancari e la moratoria sulle scadenze delle rate dei mutui. Misure eccezionali simbolo di una costruzione precaria, che se cadesse avrebbe un impatto drammatico. E che prima della ripresa l’avrà comunque: una paralisi che alimenterebbe la recessione, la disoccupazione e altre perdite per le banche. Oggi i quattro pilastri reggono il Paese ma lo ingessano, non lo preparano a rialzarsi né a utilizzare i finanziamenti europei.
 
Biden al posto di Trump, ma Pechino resta l’avversario strategico degli Usa e dell’Europa
“Il regime cinese poggia su basi molto fragili, nasconde sotto il tappeto ciò che non va, come ha fatto nascondendo il virus”, spiega Fubini. “Silenzi e ritardi delle autorità nel condividere le notizie hanno fatto sì che fino al 23 gennaio gli aerei abbiano fatto la spola tra Wuhan e Fiumicino scaricando 1800 persone”. Nonostante la “diplomazia delle mascherine” Pechino ha perso la fiducia del mondo. Ma la catastrofe reputazionale non ha impedito alla Cina nel 2020 di diventare il primo partner commerciale dell’Europa. Il silenzio sul virus rispecchia il suo sistema politico, fondato su un partito unico senza legittimazione popolare. Un regime rigido e fragile, opaco e inaffidabile, in cui le persone si organizzano come possono.
Ed è questa la Cina che domina l’agenda politica, dagli Stati Uniti all’Europa e fino all’Italia. “Veder uscire Trump dalla Casa Bianca sarà un sollievo, ma è ingenuo credere che sia la fine del problema. Trump ha preso 5 milioni di voti più che nel 2016: più lui da sconfitto di quanti ne abbiamo avuti Clinton e Obama da vincitori. La società Usa è cambiata: la differenza di reddito fra il ceto medio e il 5% più ricco è triplicata dal 1981 al 2018, soprattutto negli anni di Obama. Una lezione che va al cuore di questa globalizzazione fragile”, dice Fubini, “che ci parla delle diseguaglianze e delle patologie sociali che esse generano”. E la Cina? Se nel 2016 avesse vinto la Clinton, nemmeno lei avrebbe potuto evitare di correggere la debole politica di Obama verso Pechino. Per motivi di leadership globale, gli stessi seguiti da Trump. E ora? “Dopo quattro anni di sfide a base di retorica incendiaria, decisioni arbitrarie sui dazi, intese mai attuate e molto rumore per nulla, il deficit commerciale USA verso Pechino è immutato a 345 miliardi di dollari. Adesso i toni, lo stile e in parte le modalità cambieranno. Ma anche per Biden la Cina sarà il grande avversario strategico del ventunesimo secolo”.
Il nuovo approccio americano con la Cina avrà implicazioni anche sull’Europa e l’Italia. Prima di tutto il Vecchio continente si scoprirà “periferico”, perché gran parte dell’attenzione sarà puntata sull’Asia. E di conseguenza cresceranno le spinte sugli alleati, Italia in testa, perché evitino alleanze tecnologiche con Pechino, a partire dal 5G. I rapporti Europa-Stati Uniti non perderanno il tradizionale equilibrio: ci saranno toni meno conflittuali sui temi commerciali, sui bilanci della difesa, sugli aiuti di Stato… ma anche con Biden la pressione non diminuirà. Forse anche la Brexit sarà meno hard: Biden, di origine irlandesi, non vorrà un divorzio che incrini le intese tra Regno Unito e Irlanda. Senza Trump, Boris Johnson oggi è più debole.
 
Uscire dalla zona di comfort: “Il problema non è più capire cosa fare, ma cambiare rotta”
Gira e rigira, si torna alla Cina. “Mentre l’Occidente prova a curare i traumi del terrorismo, le crisi finanziarie e il populismo, Pechino ha preso il controllo dei nodi della globalizzazione dai quali noi ci siamo assentati”. Anche ora, mentre la pandemia frena il resto del mondo, la Cina ha ripreso a correre. Inoltre si presenta come il campione del mercato globale, però espelle gli stranieri dalle forniture industriali e riporta all’interno intere filiere: vuole che gli altri dipendano dalla sua potenza produttiva, ma non vuole dipendere dagli altri. Guidata dalla volontà di rivincita di Xi Jinping, cerca e trova nuovi alleati. Ne è un esempio l’influenza paralizzante esercitata sull’Oms. Come conclude Fubini? Che se non possiamo modificare il corso della globalizzazione, ormai troppo pervasiva e veloce, possiamo però pensare una società più adatta a gestirne gli effetti negativi, e progettare uno sviluppo meno diseguale. Ma dobbiamo uscire dal nostro “silos”, quel nido di competenze ultra-specialistiche che ci fa da zona di comfort. Che sia finanza, migrazioni o clima, tutto si tiene, con legami tanto stretti da aumentare il rischio. Il problema non è più capire, è agire per cambiare rotta.

 
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