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Big data, un tesoro di informazioni: ma da maneggiare con cautela

Big data, un tesoro di informazioni: ma da maneggiare con cautela

Big data, un tesoro di informazioni: ma da maneggiare con cautela

di Stefano Tenedini

Forniamo noi stessi ai social media una miniera di preferenze, scelte, esperienze ed emozioni, e le aziende ne ricavano idee per lanciare i prodotti e orientare i mercati.
Ma il nuovo modello contiene anche dei rischi: bisogna quindi fare un utilizzo etico dei dati e preservare la democrazia, soprattutto quando il “prodotto” è la politica.

 
4 dicembre 2019
 

Dall’alba dell’uomo siamo sempre andati dritti, lungo una linea retta. Capacità del cervello, modelli di sviluppo, teoremi che esprimono la realtà, innovazioni: tutto cresce senza strappi, progressivamente. Da qualche decennio invece la crescita è diventata esponenziale, a ritmi tali che non le stiamo più dietro: noi, le teorie e le innovazioni siamo sempre in ritardo. La nostra esperienza è insufficiente e per capire serve un altro metodo: l’esperienza di tutti gli altri. Per questo analizziamo quelli che definiamo Big data: una massa di notizie, emozioni, relazioni, dettagli e culture che ci può traghettare nella crescente complessità. Un esempio? Da quando si parla di plastic tax questo argomento spopola sul web. Tra i pareri spicca la totale contrarietà dei giovani all’uso di bottiglie non riciclabili: un segnale che allarma i produttori e genera opportunità, crisi, trasformazioni. Ecco, oggi i trend fanno questo.

L’utilità dei Big data (sapere cosa sono, come si analizzano e come si mettono a frutto tutte le informazioni che veicolano) è un fattore fondamentale per la crescita delle imprese in un contesto sociale ed economico in cui la stabilità e la persistenza dei comportamenti hanno le stesse speranze di sopravvivenza di una palla di neve nel forno. Non trascuriamo neanche le ricadute che la lettura di questa massa di dati ha sulla società: oltre il business è un modo diretto per osservare noi stessi riflessi nello specchio. Un tema affrontato durante l’ultimo incontro del 2019 di #Open da Alessandro Zonin, che è Social e digital media strategy leader per la IBM, e da Paolo Errico, Ceo di Maxfone, stimolati dalle domande di Gaia Passamonti, esperta di comunicazione e formazione e creatrice di di Pensiero visibile.
Che usiamo Airbnb o Booking, Spotify o Amazon, l’onnipresente Google, Trenitalia, RyanAir o il supermercato sotto casa, più o meno consapevolmente tutti noi stiamo cedendo i nostri dati di navigazione, le nostre preferenze, scelte, esperienze, feedback ai data analyst. I quali analizzano le emozioni (insieme a miliardi di altre informazioni provenienti da oggetti IOT – l’internet delle cose – o da macchinari 4.0 e presto dalle reti 5G) e ne fanno il carburante di ogni campagna di marketing, ideazione di prodotti, politica di concorrenza e di prezzi. Ciò che rende preziosa questa raccolta è il grande volume di dati, la loro varietà, la velocità sia di afflusso che di analisi e la loro veridicità, nel senso che restituiscono un’immagine reale di quel grande mercato che chiamiamo società. Un sistema che ormai si è raffinato e riesce a leggere un’enorme quantità di dati con un incredibile livello di dettaglio.

Ogni notizia genera una nostra reazione, risposte social, prese di posizione ed emozioni che si trasformano quindi in strategie e business. Carburanti fossili o green? Packaging? Sharing economy o auto di proprietà? Mare o montagna? Tutto è scrutinato e vagliato in real time, perché alle aziende non servono modelli incapaci di stare al passo con l’attualità immediata. Illuminante l’esempio di utilizzare le immagini disseminate da milioni di utenti su Instagram per leggere le preferenze nel consumo di vino: non solo bottiglia ed etichetta, ma bicchiere, contesto, territori, stagioni, età, genere dei soggetti, tipo di locale, cibo... Con un traguardo evidente: prevedere i comportamenti per orientare i prodotti.

In termini di comunicazione i Big data aiutano a ridefinire la narrazione delle aziende, spesso troppo autoreferenziali, per riportare al centro clienti che non sono più quelli che crediamo. L’obiettivo di questa rivoluzione (e altre seguiranno) è creare imprese data driven, cioè che facciano il prodotto che il mercato vuole, e NON il prodotto che vogliono loro... salvo poi sperare che il mercato lo accetti a forza di spingerlo.

Sull’altro lato della medaglia, l’impatto che la raccolta e l’analisi di grandi volumi di dati avrà sempre più sulla società. Il dato in sé non è buono o cattivo, dipende dall’uso più o meno pulito che se ne fa. Vediamo la politica. In soli sette anni, dalla seconda campagna di Obama, (che aveva ottenuto in modo trasparente il supporto e il sostegno degli elettori), siamo ora all’invasione di fake news a uso elettorale. Lo scenario è mutato drasticamente, con un uso “furbo” di dati raccolti a insaputa dei frequentatori di piattaforme apparentemente neutre per veicolare informazioni politicamente profilate e orientare le intenzioni di voto. È una minaccia alla democrazia, come temono alcuni, o un passaggio al quale dovremo abituarci, sia pure adottando nuovi anticorpi, sbarramenti tecnologici e maggiore consapevolezza?

In questo scenario in costante cambiamento dobbiamo anche fare i conti con innovazioni perfino difficili da descrivere: cognitive computing, intelligenza artificiale, machine learning e il crescente dualismo/partnership tra umani e macchine. E si fa avanti imperioso il dovere di regolare gli aspetti etici dell’utilizzo dei dati. Tanto che IBM ha preso un impegno formale in questo campo, assumendosi la responsabilità di “sviluppare l’intelligenza artificiale per aumentare l’intelligenza umana” in una logica di “fiducia e trasparenza”.

Ma quali sono adesso, subito, le scelte più urgenti che coinvolgono aziende e Big data? La risposta di Paolo Errico: “Rendere democratico l’accesso ai dati”. Non solo meno costoso, ma più agevole anche per le piccole imprese, attraverso piattaforme disponibili a una platea più ampia. Per Alessandro Zonin “c’è un problema di fake news” che richiede una maggiore tracciabilità delle fonti e informazioni più credibili, ad esempio utilizzando la blockchain.

In sostanza il messaggio è che gli strumenti per ovviare alle distorsioni ci sono: usiamoli.