Alfonso Fuggetta Non si fa innovazione (digitale) per fare impresa, ma per cambiare le cose
Alfonso Fuggetta Non si fa innovazione (digitale) per fare impresa, ma per cambiare le cose
Si parte da un’idea e da una ricerca di base, si valuta l’impatto potenziale sul mercato di prodotti e servizi, e poi man mano che si raffinano le prospettive si passa ai prototipi e infine al lancio. A chi spetta lanciare e seguire il processo? All’inizio alle università, che creano conoscenza e know how; e poi all’impresa che ha risorse, i team ed efficienza necessaria. L’obiettivo è generare lo spazio necessario perché l’innovazione digitale possa portare benefici all’economia e alla società. Purtroppo in molte aziende, dice il docente del Politecnico e Ceo del Cefriel, c’è un gap tra raccolta e utilizzo dei dati: una barriera da superare per imparare a competere e a creare impresa partendo dalle (buone) idee.
Oggi più che mai, in un contesto che continua a proporre alle imprese sempre più sfide, in cui anche il concetto di “concorrenza” sembra travolto da una serie infinita di variabili, due rimangono i pilastri portanti dell’architettura aziendale: le persone con cui condividiamo il nostro viaggio e un’organizzazione solida ma al tempo stesso flessibile, capace di adattarsi all’innovazione e di servire i clienti al meglio. E una struttura digitale è uno degli elementi centrali per crescere e sostenere lo sviluppo. Francesco Masini ne ha parlato per Open di Vecomp Academy con Alfonso Fuggetta, docente di Informatica al Politecnico di Milano e anche AD di Cefriel, consorzio di ricerca nato nell’88 da università, amministrazioni locali e imprese per condividere le conoscenze sulla la tecnologia informatica, puntando così a innovare tutta la società mettendo la digitalizzazione a disposizione delle persone.
In oltre trent’anni di innovazione, progetti di ricerca avanzata e formazione per le imprese, oggi Cefriel per l’Italia è come un faro nella notte. Non è un carrozzone: si autofinanzia con il lavoro di 140 persone, sviluppa oltre cento progetti l’anno e genera 12 milioni di ricavi stando sul mercato. La questione è “come andare oltre la retorica dell’innovazione”, e la risposta è nella digitalizzazione. “Non si innova per il gusto di innovare”, spiega Fuggetta, “ma per continuare a crescere sia dal punto di vista economico che dimensionale e nelle tipologie di servizi. E poi avanti daccapo, raffinando il processo, perché se ci si ferma si è morti. Il mondo cambia di continuo, e la mentalità dev’essere andare avanti sempre”.
Ma cosa devono fare oggi gli attori dell’innovazione? Cosa serve per crescere? Si parte da chi ha un’idea e si fa dapprima una ricerca di base. Poi occorre chiedersi quale impatto avranno possibili prodotti o servizi basati su quell’idea. Se la risposta è positiva tocca a una ricerca applicata che permetta di capire come dev’essere fatto il prodotto o il servizio che sta maturando. Fin qui, spiega Fuggetta, di solito è un lavoro che si fa in università: infatti produce articoli scientifici e analisi teoriche. Ma per andare avanti sulla via della maturità del progetto poi servono risorse: dai prototipi base a quelli a larga scala, fino al lancio del prodotto sul mercato. Però l’università deve creare conoscenza e know how: è finanziata dal pubblico e non dal privato, non è tenuta a dare subito risultati e redditività. Vediamo l’esempio del vaccino a MRNA che ha combattuto il Covid: sono serviti 15 anni di ricerca di base, non è arrivato da solo in tre mesi, con la bacchetta magica. Da questo si deve partire per crescere: il processo nasce dall’individuazione di un bisogno, si fa ricerca e poi semmai per i passi successivi si cerca un’impresa che faccia, con efficienza, ciò che è necessario.
Il punto, secondo il prof. Fuggetta, è che se si fa seriamente innovazione bisogna anche puntare ad avere un impatto reale non solo sull’azienda ma più in generale sulla società. Realizzare un prodotto è diverso dal fare ricerca: il primo propone ciò di cui il mercato ha bisogno, la seconda vuole cambiare le cose. Un centro ricerche si dota di strutture capaci di “accompagnare le idee” con consulenze specializzate, incubatori, transformation hub, si cercano soluzioni, prototipi già esistenti, competence center, distretti… chiunque possa supportare il processo di creazione di impresa partendo dalle (buone) idee. Sono luoghi di aggregazione dove si uniscono i puntini, ha aggiunto Fuggetta con alcuni esempi.
I trattori sono macchine complesse interfacciate con molti terminali che producono una quantità enorme di dati. Così si possono raccogliere i profili di utilizzo, gestire l’usato con una vita media di utilizzo estremamente lunga. Oppure Enel, che ha necessità di governare una quantità inconcepibile di complessità, dalla fornitura di energia al controllo della rete fino all’amministrazione. E c’è anche un’azienda che produce che bilance per le sacche di sangue dei centri trasfusionali: come capire quando sono piene? Per tutti questi prodotti o servizi occorrono persone - è il legame che li unisce - che creino il progetto e poi seguano il processo e verifichino se funzionano. Le tecnologie digitali riducono il ritardo tra raccolta e utilizzo dei dati, ma incredibilmente ancora moltissime aziende non ci sono arrivate. E per fare innovazione ci vogliono team con le competenze, se no si gira a vuoto.
Oggi e sempre più il digitale deve essere la competenza di base per tutte le persone e le funzioni, anche se a livelli diversi. Restano da risolvere i problemi generati da un sistema scolastico ancora pesante: “Più ITS, più università politecniche”, chiarisce Fuggetta. “Ma le imprese devono valutare e quindi pagare bene i nostri giovani, per non perdere le risorse chiave. E poi spingere per una formazione diffusa in azienda, credere nella responsabilità e nell’autonomia”. La strada è ancora in salita e le domande infinite: come dire ai manager che senza innovazione non ci si muove? Come superare la resistenza al cambiamento?
“Non c’è protezionismo che tenga: dobbiamo competere di più, innovare e accettare che piccolo non è bello ma solo un passaggio transitorio. Ma per fare concorrenza”, spiega, “ci dobbiamo attrezzare, esportare di più e non solo nelle regioni del Nord, contaminarsi con le idee e aprirsi si più al concetto di rischio. Certo che se mancano anche i servizi base, dico banalmente una connessione adeguata, diventa inutile parlare di sviluppo digitale”.
Per Fuggetta quindi l’innovazione è parte della vita. Tanto che ha definito in dieci parole il senso della trasformazione costante, forse l’unico modo per non assistere impotenti a un lento declino della propria impresa. Una riflessione aperta, non un decalogo all’antica, per riconoscere la necessità delle imprese di abbracciare l’innovazione digitale, il sistema più utile a tenere il passo di cambiamenti repentini nel lavoro, nei processi e negli strumenti.
Il perché. Occorre una ragione per cambiare: sapere perché si innova equivale a capire da dove derivano la motivazione, la spinta e i driver dell’innovazione. Responsabilizzazione. In azienda deve essere il management a promuovere innovazione, curiosità, accettazione degli errori e quindi ricerca del nuovo e del miglioramento continuo. Senza una spinta dai vertici non c’è cambiamento. Mentalità. Innovare fa venire allo scoperto le resistenze: per questo oltre al management deve essere convinta e coinvolta l’intera organizzazione. Non è una questione di organigramma: tutti hanno uno spazio nel processo di trasformazione.
Competenza. L’innovazione è complessa, il cambiamento va governato e non occorrono solo metodi e tecnologie, ma anche persone tra cui la cultura digitale deve essere diffusa. Strutturazione. Come diceva Alberoni, allo stato nascente i movimenti sono caratterizzati da energia ed entusiasmo trasformativo, poi si modificano e creano una nuova istituzione, trasformando la società che li circonda. Anche l’innovazione deve portare la spinta iniziale a diventare “istituzione”. Esecuzione. Bisogna concretizzare le idee e i progetti e dare loro una sostenibilità nel tempo. “Fare” è la differenza tra attività di ricerca, che può fermarsi alla teoria per generare conoscenza, e innovazione, che le idee deve realizzarle.
Risorse. Non si fa innovazione senza conoscenza, finanziamenti e soprattutto tempo, che in questo periodo è la variabile più scarsa, perché ne abbiamo poco e dobbiamo ricavarne un effetto “a breve”. E poi competenze e modelli operativi che consentano alle imprese di costruire il futuro investendo in progetti funzionali. Agilità. Soprattutto nel lavoro, sarà la virtù necessaria per cogliere le opportunità e affrontare le sfide: richieste che cambiano in fretta, tempi sempre più stretti e pianificazione difficile da rispettare. E il rischio peggiore: non dare al mercato un risultato di valore riconosciuto, il “giusto prodotto”.
Impatto. Se le attività intraprese non danno un riscontro misurabile, non si può parlare di innovazione. Non confondiamola con la ricerca, che ha l’obiettivo di generare conoscenza e può anche non avere un impatto subito evidente. Invece l’innovazione questo impatto ce l’ha, e non per forza (o solo) economico. Onestà intellettuale. Impariamo a valutare in modo obiettivo la situazione. Se i dati indicano che le performance non sono adeguate, ci vuole appunto l’onestà intellettuale di riconoscerlo. I fatti sono fatti, le verità sono verità e i problemi sono problemi: fingere che non esistano non aiuterà certo a risolverli.
A conclusione della stagione 2021-2022 Open ha lanciato un sondaggio, oppure meglio un concorso di idee per scegliere il tema da affrontare nel quarto incontro - e quindi chi sarà chiamato a fare da relatore. Tre gli argomenti proposti: i cambiamenti geopolitici in corso e la loro influenza sull’economia e la società, l’intelligenza artificiale e il metaverso, e le nuove professioni digitali. Com’era prevedibile la geopolitica, che domina la cronaca, ha ricevuto la maggioranza dei consensi col 58% dei voti, raccogliendo più degli altri due temi insieme: seconda la AI con il 24%, terzi i mestieri digitali con il 18%.