Alessandro Rosina Demografia: gli alibi sono finiti, senza bambini per l'Italia sarà il declino
Alessandro Rosina Demografia: gli alibi sono finiti, senza bambini per l'Italia sarà il declino
Per l’Italia è tra le emergenze più difficili, però non sembra preoccuparci come l’energia, forse perché la vediamo lontana. Eppure denatalità e percentuale di anziani in aumento stanno aggravando gli squilibri della nostra società (e tra breve andrà ancora peggio). Senza politiche di sostegno a famiglie, giovani e lavoro come fanno Svezia, Francia o Germania, tra pochi decenni non avremo più abbastanza italiani per ripagare il debito pubblico. E le nuove generazioni continueranno ad andarsene dove saranno valorizzate e in grado di costruire i loro sogni. Il boom è un ricordo: oggi ci manca una visione del futuro, o forse non ci impegniamo davvero per migliorare un mondo di cui non faremo parte.
“La trappola demografica: culle vuote, e anche le aziende. Declino inarrestabile se l’Italia non investe sulla natalità”. Avevamo sintetizzato così l’appuntamento di Open in Vecomp Academy con Alessandro Rosina: poche parole, l’equivalente di un tweet. E la battuta per tagliare l’aria, pur consapevoli di quanto sia serio il problema del calo di nascite: "Tra un po’ avremo più nonni vigili che bambini che attraversano la strada”. L'immagine fa un po’ sorridere, ma la denatalità da noi e in Europa è un problema serio, e peggiora di anno in anno. Ma la cultura d’impresa non può fermarsi, anzi si nutre di emergenze nelle quali si deve continuare a crescere, come spiega Francesco Masini. E quindi microfono a Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica, direttore del centro di ricerca LSA e coordinatore del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, principale indagine italiana sulle nuove generazioni. Perché è una materia così importante, oggi più che mai?
“La demografia è la materia giusta per spiegare il mondo che cambia, come e in che modo intervenire perché il cambiamento sia positivo. Come scienza ci presenta i problemi”, dice, ma ci fornisce anche le chiavi per leggerli e affrontarli “Ha uno sguardo a medio e a lungo periodo, sa fare i conti con la trasformazione e ha la capacità di immaginare il futuro”. A differenza dell’economia, attenta alle oscillazioni ravvicinate di numeri e risultati, o della politica che insegue i sondaggi, la demografia ci mostra dove ci porteranno i cambiamenti di oggi e con che conseguenze. Non è come stare in treno e rivolgere l’attenzione solo a chi viaggia nello scompartimento con noi: la demografia ci porta fuori dal finestrino, in mezzo al paesaggio e a un contesto non certo immutabile: per questo deve interessarci.
Rosina racconta che Hitler, rientrando a Berlino alla fine della guerra nella Germania rasa al suolo, avrebbe fatto oscurare i finestrini per non vedere la terribile distruzione che per colpa sua aveva colpito le città, le campagne e le famiglie. A differenza di un politico che in campagna elettorale non guarda più in là del voto, o di un amministratore che vede solo i bilanci o le prossime trimestrali, la demografia affronta la realtà, amplia l’orizzonte fino al futuro. Ci propone una visione, gli strumenti per affrontare il mondo che verrà e per far sì che le prossime generazioni possano avere un ruolo in quello che sarà il loro territorio. Noi lavoriamo – dovremmo, ma siamo capaci? – per una società di cui non faremo parte: non siamo immortali in un mondo immobile, perché tutto cambia, compresi noi stessi.
“Oggi la trasformazione nelle vite delle persone è sempre più rapida: viviamo più a lungo, più in salute, affrontiamo e superiamo cambiamenti e salti evolutivi che nel passato non erano alla portata dell’umanità. Questa corsa in avanti riguarda gli individui, la vita delle coppie, i figli, la comunità, la tecnologia, l’ambiente. Le scelte le facciamo per noi, però a carico delle future generazioni. Per esse vorremmo un miglioramento, con più esperienze positive, più capitale sociale e opportunità. Dobbiamo nutrire l’ambizione di costruire un futuro migliore. Possiamo farlo? Sì. In fondo in un periodo tutto sommato breve – rispetto alla vita del pianeta – abbiamo prodotto un cambiamento tale da passare dalle caverne alla conquista della Luna. Trasformazioni enormi in quantità e per qualità, aggiunte alla nostra capacità di rimettere sempre tutto in discussione e alla voglia di superare i confini, di capire ciò che ci circonda, di continuare a imparare, di andare oltre i limiti di chi ci ha preceduto. È la nostra natura e deve diventare il nostro impegno: l’eredità che dobbiamo riversare su chi verrà dopo di noi. Per questo siamo arrivati sulla Luna”.
Perché questo futuro, chiarisce Rosina, non ci è ignoto. Anzi, grazie alla demografia appare chiaro ed evidente, stimola la nostra innata capacità di immaginare soluzioni, ci mostra già oggi l’infrastruttura di quel che saremo. Su questa matrice possiamo, come un architetto, disegnare il palazzo giusto intorno al quale crescerà la società di domani. Del ventunesimo secolo vediamo già le prime trasformazioni, alcune prossime e alcune sotto i nostri occhi. Li abbiamo sintetizzati in quattro concetti che iniziano tutti per “I”: Invecchiamento della popolazione; Immigrazione e facilità di spostamento; Impatto ambientale, che discende anche dalla matrice della popolazione; e Innovazione tecnologica, che porta con sé nuovi strumenti e competenze per produrre valore destinato al futuro che vogliamo anticipare. A noi, oggi, spetta il compito prima di immaginarlo, e poi di impegnarci a prepararlo.
Si dice, con una battuta amara, che chi capisce la dura realtà della geopolitica non dorme la notte. Rosina ribatte che “è lo stesso per chi studia demografia, solo che pensando al futuro dorme benissimo, ma per sognare le scelte giuste che possano cambiarlo... L’Italia è in una posizione molto scomoda: non ha letto, spesso non ha compreso e non ha corretto i cambiamenti demografici. In un secolo un Paese di emigranti per mancanza di scelta si è trasformato in un Paese da un lato meta di immigrati e dall’altro vede partire i giovani più preparati, che così non saranno una risorsa per l’Italia. Nello stesso periodo siamo passati dall’elevatissima mortalità infantile a una vita lunga e in buona salute”. Nel 1861, al tempo dell’Unità d’Italia, la durata media della vita era di 32 anni. La mortalità nel primo anno di vita sfiorava la metà dei decessi totali, e quattro bambini si dieci non arrivavano ai cinque anni di età. Solo il 5% degli italiani arrivava a compierne 60. Però 150 anni fa la mortalità infantile era contrastata dall’elevata fecondità e da una natalità pari in media a cinque figli per ogni donna, potendo contare che al massimo un paio sarebbero diventati adulti.
Oggi siamo tra i popoli più longevi ma che fanno meno figli. E ancora una volta nemmeno questa è stata una trasformazione meditata: non ci adattiamo, ci scopriamo cambiati, ma non sappiamo gestire questo passaggio. Abbiamo avuto un buon momento tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni Sessanta, quando la spinta allo sviluppo (il famoso “boom”) è venuta dai giovani che hanno reso un Paese distrutto un miracolo economico europeo. La crescita economica veniva anche da una maggiore natalità, che poi progressivamente è andata perdendosi. Non riusciamo più a tenere insieme sviluppo, ricchezza e benessere: e se la società non si rinnova la causa principale è la mancanza di nuovi giovani che possano sostituire, o almeno integrare, le generazioni nella curva discendente della loro vita attiva.
Comunque la situazione è complicata quasi dappertutto. Grafici impietosi mostrano come la percentuale di popolazione attiva si stia riducendo In Europa e Nord America, a favore del terzo mondo che cresce molto (troppo?). Eppure eravamo partiti bene: per numero di abitanti, sviluppo sociale, aspettativa di vita (non solo gli anni: anche la qualità della vita), l’ecosostenibilità, la lotta alle diseguaglianze sociali, i servizi. Ma tutto questo va ripreso e rafforzato, perché occorre pensare non tanto a una società con più anziani, ma a una con più giovani. Se no è come far crescere un palazzo ristrutturando solo i piani più alti, senza tirar su anche quelli più bassi, dove ci sono le porte per entrare in contatto col mondo...
Rosina riprende spiegando che “non servono più cinque figli: alla società del benessere ne bastano due a coppia per mantenere bilanciati arrivi, partenze e benessere economico. Se la popolazione resta stabile, un Paese non si spopola: se fa più figli vive meglio, se invece la fecondità cala sotto la soglia di pericolo – molto sotto come l’Italia, circa un figlio solo – la sostenibilità di tutto il sistema vacilla inesorabilmente. Negli anni Sessanta l’Italia aveva ogni anno un milione di nuovi nati, oggi siamo scesi a 400 mila. Lo squilibrio demografico comporta squilibrio economico: se siamo in pochi chi pagherà il debito pubblico? Quanto in più costerà ai pochi italiani rimasti? Dove troveremo i lavoratori per far funzionare una fabbrica? E torniamo all’emigrazione: l’abbiamo definita “fuga dei cervelli”, ma in realtà i giovani che possono farlo si spostano dove trovano condizioni migliori di quelle che l’Italia è in grado di offrire loro. Non ci sono alternative: se non li rendiamo protagonisti del loro futuro se ne vanno, impoverendo l’Italia – e in parte l’Europa – e la sua economia”.
La percentuale di giovani sulla popolazione è tra gli indicatori che ci dicono di quanto si sia spostato l’equilibrio demografico: gli under 30 sono ormai la minoranza. Sulla progressiva riduzione della loro presenza nella società – e del loro apporto – si è innestato un processo che Rosina definisce di “de-giovanimento”. Un effetto di questo scenario già non brillante è la crescente dipendenza dagli anziani nelle società evolute e invecchiate. Tra il 1990 e il 2050 si prevede che salirà in modo spaventoso, dal 25% a quasi il 70%: circa trent’anni fa l’Italia che lavorava sosteneva da sola i tre quarti del proprio benessere, chiedendo solo una mano ai pensionati per il resto della spesa. Fra 25 anni la situazione si ribalterà: e sì, speriamo che i nostri vecchi abbiano una vita lunga e prosperosa. È il triste scenario di cui dobbiamo essere consapevoli, seppure molto sfiduciati: sono dati sono noti da tempo, ma nessun governo ha mai elaborato un piano di rientro che ci protegga da questi squilibri.
Non è la vecchia favola della formica e della cicala: no, è la nostra incapacità di guardare al domani per migliorarlo con le scelte di oggi. I Paesi che l’hanno fatto possono permettersi di pensare al futuro con meno angoscia di noi. Ripensando le politiche familiari e abitative, colmando le diseguaglianze di genere e di lavoro, investendo in ricerca e sviluppo, lavoro per i giovani, cambiando le norme e le procedure per dare alle nuove generazioni lo spazio vitale di cui hanno bisogno per crescere e continuare a tenere in vita la società. Cioè noi. È importante assicurare loro le condizioni perché abbiano redditi adeguati alle competenze che possiedono, servizi per l'infanzia e una cultura politica – pubblica e familiare – capace di favorire la natalità. Se no anche chi crede nel futuro e fa un figlio, spesso fa solo quello.
Guardare alle scelte degli altri Paesi europei è sconcertante perché mette a nudo la nostra incapacità di agire, ma ci suggerisce una via. La Svezia ha investito su tutti i punti di cui ha parlato Rosina: varato e difeso politiche che hanno avuto un effetto positivo e rapido sulla natalità, inciso sul gender gap, sull’incremento del numero di donne al lavoro e sui servizi sociali per l’infanzia e a famiglia. Ancora più avanzate per certi versi le policy della Francia, che ha sempre considerato i figli non solo la ricchezza della famiglia, ma un patrimonio per l’intera società. È partita dai figli, e intorno a loro ha costruito leggi a tutela del lavoro per le famiglie con piccoli a casa. Questo, come in Svezia, ha richiesto una generosa copertura dei costi dei servizi per l’infanzia. La Germania come al solito ha affrontato il problema in modo pragmatico: non ha speso i pochi soldi avanzati dal bilancio, ma ha deciso una serie di azioni mirate. Il nido oggi è una certezza: un costo assorbito e restituito (moltiplicato) con l’aumento della natalità, che da un livello molto basso oggi supera la media europea.
Insomma, volendo farlo non ci sono limiti, se non una mentalità vecchia che protegge gli anziani e ignora i più giovani. Non c'è neanche più la scusa dei pochi spicci a disposizione, perché il piano Next Generation EU mette in campo risorse da Piano Marshall per rifare le infrastrutture sociali. Anche noi potremmo metterci a costruire questo edificio che deve prepararsi ad affrontare il futuro. Ma come ancora in tanti, troppi campi, a mancarci è la visione politica. Abbiamo ascoltato Alessandro Rosina mentre ci saturava di numeri e di scenari, con una densità di informazioni e dettagli che fa venire in mente il professore di liceo o università, esigente e appassionato della materia. Morale: andiamo a dormire più preoccupati che non sognando un grande futuro pieno di bambini italiani, ma se non altro abbiamo le idee più chiare e abbiamo esaurito gli alibi. Domanda: ma siccome sono anni che queste cose Rosina le dice forte e chiaro, qualche governo è mai stato a sentirlo?